Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri
Thomas De Quincey
(1785 – 1859)
Può sembrare sorprendente che uno scrittore inglese del periodo romantico che divenne oggetto di quasi morbosa curiosità e popolarità in seguito alla pubblicazione di due lunghi saggi autobiografici intitolati Confessioni di un mangiatore d’oppio inglese, apparsi sulla rivista letteraria London Magazine nei numeri di settembre e ottobre 1821, possa venire incluso in una rubrica che tratta delle voci dei maestri. Una vittima dichiarata della dipendenza da una sostanza stupefacente dalle cupe risonanze non ha certo molto da insegnare a contemporanei e posteri, penserà il perplesso lettore; tutt’al più la sua personale, tormentata vicenda potrà servire da ammonimento a che non si compiano gli stessi passi lungo una strada che porta all’asservimento della persona. Al massimo, ma è l’ultimissima concessione, qualche scorcio narrativo potrà ricreare con vivace successo di colori alcune atmosfere di vita e di costume a noi ignote, per soddisfare la nostra sete di conoscenza di ciò che è umano, per quanto lontano dalle nostre abitudini e alieno dal nostro pensiero esso sia.
Eppure le Confessioni sono assai diverse da ciò che il titolo sembra promettere. Chi fosse attratto dall’aura del proibito e del diverso, narrato in toni di un lucido e rigoroso resoconto appena velato dalla veste romanzesca, meglio farebbe a rivolgersi all’opera prima di uno delle figure più interessanti della recente narrativa americana, William Burroughs, che pubblicò Junky nel 1953. In italiano il titolo, suggestivo e piuttosto ermetico, è La scimmia sulla schiena: in quelle pagine si trova il sottomondo inquietante degli spacciatori e dei tossicodipendenti della New York del secondo dopoguerra; gli sforzi miserevoli che è costretto a compiere chi ha perduto la sua libertà, per procurarsi la dose giornaliera; gli squallidi freddi sobborghi dove si consumano transazioni e tragedie; insomma, i fiori del male dei nostri tempi tristi. La prosa tagliente di Burroughs avvincerà o allontanerà il lettore a seconda della sua sensibilità; rivelerà quadri inaspettati e indimenticabili; non lo lascerà, comunque, indifferente, anche perché, dal fondo della sua esperienza desolante, Burroughs, che fu amico e mentore di Jack Kerouac e di Allen Ginsberg, e rappresentante di spicco, insieme con loro, della cosiddetta beat generation, pronuncia infine il suo invito a “liberarsi dalla schiavitù degli agenti chimici”.
Il fine artistico e filosofico di De Quincey è un altro: attraverso le conoscenze acquisite nei lunghi anni della sua dipendenza dall’oppio (più esattamente, dal laudano, che era una composizione di tintura di oppio e di alcol, in vendita presso i farmacisti senza bisogno di ricetta medica, unico analgesico del tempo), lo scrittore inglese studia e svela i meccanismi inconsci della immaginazione. Non mancano nel testo brani narrativi di notevole suggestione, come i ricordi dell’infanzia, nei quali l’autore rievoca da maestro lo stupore del bimbo davanti alla grandezza inquietante delle stanze di una casa, o lo sbigottimento per l’improvvisa incursione della morte nel caldo nido familiare. Memorabile è la descrizione del giorno del primo acquisto del laudano: in seguito ad un lungo periodo di sofferenze fisiche e psichiche sempre più gravi, su consiglio di un amico, il giovane De Quincey si recò presso un farmacista di Oxford Street, a Londra, e trepidante chiese il rimedio al dolore, la panacea universale: i timori, i dubbi, le aspettative, la pioggia di quel pomeriggio domenicale, l’eccitato rientro alla casa, l’ingestione della droga, sono narrati con la mano sicura e felice dell’artista consumato. Allo stesso modo lo spettacolo della Londra che il perbenismo imperante non sapeva e non voleva vedere, pulsa eternamente vivo e commovente in tante pagine della ammaliante narrazione delle Confessioni. Ma l’insegnamento che soprattutto De Quincey ci dona è di natura spiccatamente intellettuale: è la sua volontà invincibile di investigare, lui primo, le regioni sconosciute dell’inconscio umano, per cercare di comprendere la forza occulta che ci guida e determina il nostro rapporto con il mondo. I sogni e gli incubi che l’oppio procura a chi ne abusa, crescono e si affollano secondo modalità di percezione che rivelano la loro presenza alla mente vigile e coltivata che sa, pur oppressa dalla schiavitù del vizio, scorgerne l’elusiva natura. L’occhio che fruga intento nel buio, concentrato e ansioso, appartiene di diritto allo sguardo che, nonostante le debolezze di cui soffre, testimonia della parte più nobile della natura umana, quella che si sforza di tendere sempre più in alto, pur nel mezzo di orrori e sconfitte.
Il grande poeta tedesco Johann Wolfgang Goethe, al termine della sua gigantesca ricreazione della storia drammatica del dottor Faust, al momento della morte fisica dell’inquieto personaggio, fa dire ad un angelo del Paradiso che siffatto uomo può essere salvato, non sarà preda delle tenebre neppure se ha venduto l’anima a Mefistofele, perché porta in sé una scintilla dello splendore delle nature divine.
Accompagnando il lettore tra i paradisi dei piaceri dell’oppio, e poi negli inferni degli incubi dell’oppio, De Quincey ci parla non solo della sua vicenda personale: i moti di quella mente sono affini ai sussulti e ai singhiozzi delle nostre menti, che pur senza l’aiuto, e neppure il desiderio, del consumo di sostanze stupefacenti, hanno conosciuto e tuttora sono familiari con tanti e tanti stati d’animo che l’autore evoca e descrive:
Di questo, almeno, sono sicuro, che non esiste né può esistere la dimenticanza per la mente; mille eventi stenderanno forse un velo tra la nostra coscienza presente e le segrete iscrizioni della mente; incidenti della medesima natura strapperanno questo velo; ma velata o svelata, l’iscrizione rimane per sempre; così come le stelle sembrano ritirarsi alla luce del giorno, mentre, invero, è la luce che si stende su di esse come un velo; esse attendono di essere nuovamente svelate, quando la luce del giorno che le oscura si sarà, a suo tempo, ritirata.