Beppe Fenoglio

Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri

Beppe Fenoglio

Beppe_Fenoglio

(1922 – 1963)

Talora siamo sorpresi, nel corso della lettura di un testo narrativo, da una frase, o una notazione, particolare che subitamente risplende sotto i nostri occhi come una gemma pregiata. Interrompiamo allora per qualche attimo l’intreccio che ci ha finora avvinto, e riconsideriamo il passo che ha colpito la nostra sensibilità: due, tre, quattro volte riandiamo su quelle parole, avvertendo l’acuirsi dell’emozione, come se una sonda affondasse negli strati della persona che ospitano e velano l’essenza della vita. E’ uno dei momenti privilegiati che solo l’arte sa evocare, quando pare che la coltre spessa e secca che la quotidianità stende sulle cose sia scheggiata, e lasci trapelare, da sotto, il bagliore delicato di ciò che è bello e vero. Questo è quanto mi è recentemente accaduto durante la lettura di un vibrante racconto di Beppe Fenoglio, uno degli scrittori italiani sicuramente importanti della seconda metà del secolo ventesimo, autore di romanzi intensi e personalissimi come Una questione privata (da Italo Calvino ritenuto il capolavoro della narrativa legata all’esperienza complessa e sofferta della Resistenza) e Il partigiano Johnny, e di molti racconti altrettanto memorabili.

beppe fenoglio langhe

(Lo scrittore e le Langhe)

L’andata (incluso nella raccolta I ventitre giorni della città di Alba, apparso nel 1952) è una storia partigiana che si consuma in poche ore, nel corso di una mattina in cui i ritmi e gli accenti scabri della vita si scontrano con quelli definitivi e impietosi della morte. I protagonisti sono quattro membri di una formazione clandestina che vivono tra turni di guardia sonnolenta e imboscate, uno di essi ancora un ragazzo in cui pulsa, irrefrenabile, l’arrogante ingenuità esplosiva dell’adolescenza: si imbattono in un sergente e in una pattuglia a cavallo della repubblica di Salò. La lunga preparazione dell’azione che poi segue, si risolve in una scena conclusiva che la maestria di Fenoglio organizza intorno a sicure, essenziali pennellate di prosa. Il frammento che mi ha affascinato, così recita:

I vapori del mattino si alzavano adagio e le colline apparivano come se si togliesse loro un vestito da sotto in su.

Chi abbia sostato in un’ora di raccolta osservazione tra gli ondulati poggi delle Langhe che si distendono nell’Oltretanaro, riconosce la verità di questa illuminazione. Non si tratta tanto di un virtuosismo stilistico che vuole donare alla natura corrispondenze umane, come se le rotondità molli del paesaggio ricreassero nella fantasia le forme di un corpo femminile che lento si svela. Semmai, in questo caso, è l’ordinaria occorrenza di un rituale umano che si nobilita nella scoperta emozionante della propria parentela con ciò che umano non è. Nella vasta sfera del mondo, la prospettiva umana non è il centro delle cose: esiste, anch’essa, per contribuire all’armonia generale. Rammentando la propria natura di centro accanto ad altri centri, tutti di pari dignità, uomini animali alberi montagne laghi mari, un uomo può imparare il rispetto per ciò che lo circonda, e di conseguenza la posizione contemplativa può prendere il posto della smania inappagabile di possesso. Come sa chi ha un poco riflettuto, la pausa estetica assume valenza etica: un uomo diventa allora migliore.

La frase sopra riprodotta mi ha ricordato altre due famose aperture paesaggistiche che possono produrre effetti consimili: procedendo a ritroso nel tempo, incontriamo dapprima i due celeberrimi versi con cui Giosue Carducci apre la sua poesia San Martino, La nebbia a gl’irti colli/ Piovigginando sale, ove un fenomeno atmosferico non insolito è fissato nella sua vaporosa, delicatissima fragilità, grazie anche alla scelta del bellissimo gerundio che apre il secondo settenario, e che tanta leggiadria evoca alla mente; incontriamo poi i versi di Dante ad inizio del Purgatorio, nel momento in cui il poeta può finalmente allargare, dopo la costrizione infernale, il suo sguardo sopra le vaste onde: L’alba vinceva l’ora mattutina/ che su fuggìa innanzi, sì che di lontano/ conobbi il tremolar della marina. Quell’ora fuggitiva assume i contorni di vaghe fattezze umane che si allontanano prima di essere conosciute, lasciando dietro di sé un sapore di desiderio inappagato, di rammarico, anche. Allora ci sentiamo ospiti privilegiati del pianeta, pronti a conservarne l’incanto contro ogni pratica di inquinamento.

Beppe Fenoglio, sbrigativamente etichettato come “scrittore della resistenza partigiana,” è un narratore compiuto: se la sua ispirazione prende sempre avvio dall’esperienza che lui stesso visse dopo le giornate del settembre 1943, la tavola cromatica di cui sa avvalersi è molto più ampia del tema scelto, e sa cogliere gli aspetti più vari della vita. Si consideri l’inizio del racconto I ventitre giorni della città di Alba:

Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944.

In quelle secche parole è la vicenda della conquista e della perdita della piccola città piemontese, oggetto di contesa tra le forze del regime e quelle dell’insurrezione. Ma, insieme, è contenuto, quasi come un sospiro di sottofondo, il riconoscimento della natura tragica e al contempo grottesca dell’agire umano, gli errori le incomprensioni la cecità di chi crede di governare le vicende della storia, il bagliore ottonato, non dorato, dei falsi eroismi, la limitata eco che alcuni eventi, per noi legati a vita o morte, assumono a pochi chilometri di distanza. Tra i racconti che più amo è Un giorno di fuoco, aspra storia di paese, dalla chiusa memorabile.

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(Nella sua casa)

Beppe Fenoglio scriveva e scriveva in lunghe ore di lavoro notturno, fumando una sigaretta dopo l’altra, nella grande stanza posta sopra il negozio di macelleria che apparteneva al padre. Batteva e ribatteva i tasti della macchina da scrivere che la madre gli aveva regalato, riplasmando senza sosta diverse versioni di uno stesso testo. Spesso la prima stesura era nella lingua inglese che tanto amava e che gli aveva guadagnato, negli anni del liceo, il soprannome di Johnny. Durante il giorno lavorava nella ditta vinicola in cui si occupava dei rapporti commerciali esteri, tra mandati di pagamento, ordini e corrispondenza varia. Chi si rechi nei pressi di Alba, bene farà se deciderà di dedicare un poco del suo tempo alla visita della casa natale di Fenoglio, ora museo e centro di studi. Tra gli oggetti conservati, la pistola Colt e il fucile a ripetizione che Beppe ebbe in dono dagli inglesi, al tempo della sua militanza nelle file dei “badogliani” o “azzurri”. Sulla fodera del giaccone di pecora da combattente, notò Davide Lajolo nel suo studio biografico sul nostro autore, Beppe aveva ricopiato alcuni sonetti di William Shakespeare. Su un pannello della stanza dove Fenoglio scriveva, è riprodotto il testo del biglietto di addio a Margherita, la sua bimba allora appena nata, che allo scrittore non fu concesso di allevare: sono pensieri semplici e accorati, dettati pochi giorni prima che il tumore ai bronchi gli uccidesse il corpo, il 18 febbraio 1963:

Ciau per sempre, Ita mia cara. Ogni mattina della tua vita io ti saluterò, figlia mia adorata. Cresci buona e bella, vivi con la mamma e per la mamma, e talvolta rileggi queste righe del tuo papà, che ti ha amata tanto e sa di continuare ad essere in te e per te. Io ti seguirò, ti proteggerò sempre, bambina mia adorata, e non devi mai pensare che ti abbia lasciata. Tuo papà.

beppe fenoglio e Ita

(Con la figlia Margherita)

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