Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri
I luoghi: Cornello
(m. 482 s.l.m.)
A seguito del sorprendente sviluppo industriale ed economico che iniziò nel decennio in cui la vita rinasceva dopo le violenze e le morti del quinquennale orrido inverno del secondo conflitto mondiale, il nostro paese ha in gran parte perso i tratti di una civiltà che per secoli, accanto allo splendore di pochi grandi centri urbani aperti ai contatti internazionali, rivelava al viaggiatore campi e colli dedicati al coltivo, sparsi casolari e piccoli borghi di vita modesta e raccolta. Il bisogno di offrire ricetto alla popolazione in rapida crescita e in ancor più rapido inurbamento, non aveva ancora prodotto l’innalzarsi dei grumi di condomini che ha occupato le sempre più estese periferie, in cui la brutta uniformità di facciate e finestre e balconi parla della presumibile omogeneità delle vite che li dentro o li attorno scorrono, regolate dagli orari delle fabbriche e delle aziende e dei programmi televisivi.
Prendendo, però, qualche sentiero appartato, che grazioso si addentra tra i boschi di carpini e cornioli e querce e castagni, capita di raggiungere piccoli agglomerati di case ancora abitate in cui il sacro spirito del luogo non è scomparso, e l’architettura parla di bisogni esistenziali soddisfatti in armonia con la natura, assecondata piuttosto che aggredita. I colori degli edifici sono in consonanza con quelli del paesaggio, i materiali di costruzione conservano e testimoniano il legame con il terreno che li ha offerti.
Uno di questi borghi che tuttora conservano l’aura dei tempi antichi è Cornello, nella media Valle Brembana: passeggiando per la sua suggestiva “via porticata” si riconosce e si assapora la vita raccolta e protetta che qui si ricercò e si rese possibile in età ormai lontane. Sotto le volte in pietra di questa via coperta si evocano facilmente costumi di vita che bello sarebbe non scomparissero mai: adulti che chiacchierano sul finir del giorno fuori dalle soglie, fanciulli che corrono e strillano secondo la loro natura.
Il borgo di Cornello ha peraltro un ulteriore motivo di interesse: qui ebbe origine l’illustre famiglia dei Tasso, che alla letteratura italiana diede Bernardo, nato a Venezia nel 1493 e autore del poema cavalleresco Amadigi, e soprattutto Torquato, la cui Gerusalemme liberata è uno dei capolavori della civiltà poetica mondiale. All’ingresso del paese, per chi proviene dalla frazione di Oneta, sono le rovine della casa da cui discendono, addirittura, i principi Thurn und Taxis, che mantennero il generalato delle poste imperiali fino al 1867. Quel ramo è tuttora legato al Castello di Duino presso Trieste, dove il poeta Rainer Maria Rilke, sodale di Friedrich Nietzsche, iniziò a comporre, nel 1912, le Elegie Duinesi, una delle raccolte poetiche più significative del XX secolo.
Ricordo la prima volta che visitai quel che resta della casa, in compagnia di mio padre a cui era stato affidato il lavoro di ristrutturazione per cui ora è possibile muoversi con agio tra quelle pietre e i resti dei muri e degli archi; ancora adolescente scendevo gli irregolari gradini che si perdevano tra l’erbe, costeggiavo diroccate pareti disturbando qualche lucertola, tentavo col piede, sotto lo sguardo paterno, avanzi di belvedere, godevo la vista che abbracciava boschi e cime montuose e digradava fino al fiume Brembo, là in fondo.
(Il sito della casa della famiglia Tasso, a Cornello)
Ripetutamente ho frequentato in seguito queste rovine, talvolta in compagnia proprio di Torquato, di cui amo leggere pagine scelte tra questi sassi. Non so se mai il poeta mise piede qui, in occasione delle sue visite a Bergamo, ma il luogo dona alle sue parole, lette nel silenzio e nel sole o lentamente recitate ad un orecchio amico, quel velo di magia che arricchisce il piacere estetico. Si immagina invero che la pace che ci circonda in quel momento avrebbe cullato la travagliata infelice esistenza del poeta, venerato da Byron, da Shelley, da Leopardi; materna, quella pace così preziosa avrebbe alleviato le sue angosce, e forse gli avrebbe consentito un più sereno distacco dalla vita, rispetto a quello che sperimentò nel convento di Sant’Onofrio, sul Gianicolo, a Roma, nel 1595:
Che dirà il mio signor Antonio, quando udirà la morte del suo Tasso? e per mio aviso non tarderà molto la novella; perch’io mi sento alfine de la mia vita, non essendosi potuto trovar mai rimedio a questa mia fastidiosa indisposizione, sopravenuta a le molte mie solite; quasi rapido torrrente dal quale, senza potere avere alcun ritegno, vedo chiaramente esser rapito. Non è più tempo ch’io parli de la mia ostinata fortuna, per non dire de l’ingratitudine del mondo, la quale a pur voluto aver la vittoria di condurmi a la sepoltura mendico; quando io pensava che quella gloria che, mal grado di chi non vuole, avrà questo secolo da i miei scritti, non fusse per lasciarmi in alcun modo senza guiderdone. Mi sono fatto condurre in questo munistero di Sant’Onofrio; non solo perché l’aria è lodata da’ medici, più che d’ alcun altra parte di Roma, ma quasi per cominciare da questo luogo eminente, e con la conversazione di questi divoti padri, la mia conversazione in cielo. Pregate Iddio per me: e siate sicuro che sì come vi ho amato e onorato sempre ne la presente vita, così farò per voi ne l’altra più vera, ciò che ha la non finta ma verace carità s’appartiene. Ed a la Divina grazia raccomando voi e me stesso. Di Roma in Santo Onofrio.
(Lettera ad Antonio Costantini, 1595)