James Joyce, II

Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri

James Joyce, II

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(1882 – 1941)

Colpisce in James Joyce, che come nessun altro artista ha riflettuto, narrando, sulla natura della sua attività creativa, il percorso coerente e insieme straordinario della sua opera. Mosso inizialmente da un evidente, prezioso afflato lirico, lo scrittore giunse ad abbracciare il mito e l’epica, rielaborati secondo i timbri del comico. L’accento lirico originario è evidente nella cura con cui il giovane autore raccolse le epifanie che, secondo lui, rivelano l’anima di una situazione o di un luogo: l’attenzione alla suggestiva, fragile natura di quei momenti evanescenti è una forma di risposta soggettiva al mondo, cioè rientra nella modalità della categoria lirica. Un istante che potrebbe dileguarsi inavvertito presso una sensibilità meno raffinata, si carica di risonanze arcane e trascende il tempo. Nella delicatissima storia triestina intitolata Giacomo Joyce, è narrata una evanescente educazione sentimentale in una serie di fragili frammenti depositati in filiforme calligrafia sul biancore dei fogli. Joyce insegnava inglese ad una giovane donna di Trieste. Nacque una soffusa corrispondenza d’ amorosi sensi. Un giorno la donna donò una rosa alla figlia di Joyce: semplice gesto, ordinario, ma lo scrittore lo fissò per sempre, cogliendo la sua essenza non transitoria, espressione di eterna cortesia e di calore umano:

Un fiore donato da lei alla mia figlia. Fragile dono, fragile donatrice, fragile bimba azzurrovenata.

Le figure e i temi del mito servono a Joyce per potere rappresentare la confusa e complessa trama sincronica delle cose del mondo contemporaneo, privo, apparentemente, di un unico centro di gravità che ne determini il moto. Il mito introduce ordine nel disordine (secondo la fortunata osservazione critica del poeta T. S. Eliot), ogni ora ed e ogni avvenimento del giorno 16 giugno 1904, la data in cui si svolgono le peripezie raccontate in Ulisse, corrispondono ad una delle avventure vissute da Odisseo: potremmo dire che sulla sinopia omerica, i passi del nuovo Ulisse perdono la loro natura effimera e, come accadeva agli istanti immortalati nelle epifanie giovanili, bussano alle porte dell’eternità. A contatto con il crogiolo farraginoso e ribollente di questo nostro tempo, il mito si trasforma, si raddensa, si ripiega, si riplasma: l’uomo dal multiforme ingegno, Odisseo, veste ora i panni del piazzista di annunci pubblicitari Leopold Bloom, viandante infaticabile delle strade di Dublino, ebreo errante, padre e marito patetico e sofferente. Così è evocato nel capitolo XVII del libro, in un passo di comico virtuosismo :

Sempre egli errerebbe, autosospinto, fino all’estremo limite della sua orbita planetaria, oltre le stelle fisse e i soli variabili e i pianeti telescopici, derelitti e vagabondi del cielo, fino all’estremo confine dello spazio, passando da regione a regione, tra popoli, tra eventi. In qualche posto impercettibilmente egli sentirebbe, e in certo qual modo, riluttante, sollecitato dal sole, obbedirebbe alle istanze del ritorno. Quindi, sparendo dalla costellazione della Corona Boreale, qualche volta riapparirebbe rigenerato sopra il delta della costellazione di Cassiopea e dopo incalcolabili eoni di peregrinazione ritornerebbe, vendicatore straniato, raddrizzator di torti contro i malfattori, cupo crociato, dormiente ridesto, con risorse finanziarie (suppositizie) superiori a quelle di Rothschild o del re dell’argento.

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(Prima edizione di Ulysses, consegnata a Joyce il 2 febbraio 1922, giorno del suo compleanno.)

Leopold Bloom, pare, compie e conclude la metamorfosi di Ulisse che prese la sua prima forma nuova nel sogno del guerriero Er, alla fine della Repubblica di Platone. Trattando della reincarnazione delle anime, che dopo un periodo di riposo nell’oltremondo, sono chiamate a scegliersi un altro corpo per incarnarsi, il grande filosofo ateniese così narra:

L’anima di Ulisse, capitata nel sorteggio ultima fra tutte, venne a far la sua scelta, ma, guarita da ogni ambizione per il ricordo degli antichi affanni, andò a lungo in giro cercando una vita di un uomo privato e perdigiorno, e la trovò dopo molta ricerca, gettata lì in un canto, trascurata dagli altri. Disse, al vederla, che l’avrebbe comunque scelta anche se le fosse capitato in sorte di scegliere per prima, e se la prese tutta contenta.

Il Mare Mediterraneo si rapprende nelle strade di Dublino. Dieci anni di peregrinazioni si riducono in sedici ore di traffici cittadini. Dèi e ciclopi e ninfe divengono i personaggi ordinari o pittoreschi, inoffensivi o violenti, maliosi o grotteschi della città. L’isola di Ogigia e l’Ade e l’antro incantato di Circe si concretano nelle spedizioni al cimitero, all’ufficio postale, alla redazione del giornale, alla biblioteca, al ristorante, alla spiaggia, all’ospedale, al bordello. Telemaco prende le fattezze di Stephen Dedalus, il giovane eroe senza padre e senza patria; Penelope, la moglie fedele, si trasforma in Molly, l’infedele sposa del tragicomico protagonista.

Ulisse può essere considerato l’opera di una vita (Finnegans Wake, cui Joyce dedicò diciassette anni di vita, modellando addirittura una lingua nuova, è opera talmente elusiva da scoraggiare i lettori): nel vasto romanzo confluiscono temi e personaggi di Gente di Dublino e dell’altra opera narrativa di Joyce, Ritratto dell’artista da giovane. L’artista a lungo ha meditato la sua materia, infine essa si è depositata e ha lievitato nello stampo ottimale della sua ispirazione. Stephen Dedalus porta in giro le proprie ansie e le proprie ambizioni, il traffico della varia umanità di Dublino non maschera la paralisi di fondo, Leopold Bloom sogna di trovare il figlio che la sorte gli ha rubato, e per qualche ora sente di appagare la sua brama prendendosi cura di Stephen. Joyce, il mago della parola, sfoggia il suo stile inimitabile e fa la parodia di tutti gli stili della letteratura inglese. I luoghi divengono indimenticabili: chi visiti, a Sandycove nei dintorni di Dublino, la Torre Martello, in cui è ambientato il primo capitolo dell’opera, sente di essere entrato, varcandone la soglia, proprio nelle pagine del romanzo. Dublino, per tanti aspetti, è diventata una creazione di James Joyce. La vita della città è nell’ininterrotto flusso di parole, ora chiaro ora torbido, che scorre tranquillo o limaccioso si gonfia nel libro, tra accurate descrizioni realistiche e suggestivi monologhi interiori. Ulisse tutto vuole comprendere e trattare, secondo l’antico verso di Terenzio, homo sum, humani nihil a me alienum puto, sono un uomo, penso che nulla di umano mi sia estraneo.

Mi pare che James Joyce, estremamente conscio dell’altezza e dell’importanza della sua arte, porti a compimento il percorso che iniziò, in Italia, con il grande scultore Giovanni Pisano, che ebbe sconfinato orgoglio e sicura coscienza delle sue capacità e delle sue realizzazioni, non più servo del committente ma bizzoso padrone del suo progetto e del suo tempo: sul pulpito di Sant’Andrea a Pistoia incise queste parole, “Scolpì Giovanni che non fece mai opere scadenti (qui res non egit inanes), nato da Nicola ma fulgido di migliore scienza (Nicoli natus scientia meliore beatus).” Simili altezzose rivendicazioni del proprio merito si leggono anche sul pulpito della cattedrale di Pisa. Di sé Joyce scrisse che avrebbe dato forma, nella fucina della sua anima, alla coscienza increata della sua razza.

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Marilyn Monroe legge le pagine finali di Ulysses.

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