M. C. Escher

Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri

M. C. Escher

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(1898 – 1972)

Ad un certo punto della sua carriera, confessò Maurits Cornelis Escher, il disegnatore e incisore olandese che seppe evocare la magia dei mondi impossibili, il desiderio di ricercare studiare padroneggiare le difficoltà tecniche delle arti grafiche perse d’importanza ai suoi occhi. Un’altra esigenza era nata in lui, la cui presenza era rimasta assopita fino a quel momento: “Mi vennero delle idee che non avevano nulla a che fare con l’arte grafica, immagini così avvincenti da far nascere in me il desiderio di volerle comunicare a tutti.” Quelle intuizioni, oltre i limiti delle possibilità della ragione scientifica, non potevano venire comunicate con le parole, sembravano richiedere una capacità tecnica nuova: l’artista approntava schizzi e schizzi preparatori nei quali le volute delle linee dettavano gradatamente la soluzione formale finale nella quale si sarebbe risolta sul foglio di carta da disegno la figura sognata dall’intelletto, come si depositano sul terreno gli stupefacenti cristalli di neve. Escher avrebbe inventato la geometria dell’impossibile.

Ciò che sorprende e affascina nelle litografie, nelle incisioni, nelle mezzetinte di Escher è la compiutezza della realizzazione, l’attenzione quasi maniacale al più secondario dettaglio, al più eccentrico punto di vista di un universo che è, allo stesso tempo, logico e a-logico, ordinatissimo e anarchico. La lotta con le difficoltà compositive diviene la disciplina attraverso la quale la mente e la mano dell’artista divengono degne delle sfide matematiche che lo attirano e lo provocano: “Chi si meraviglia di qualcosa si rende consapevole di tale meraviglia. Nel momento in cui sono aperto e sensibile nei confronti degli enigmi che ci circondano, considerando e analizzandole mie osservazioni,entro in contatto con la matematica. Anche se non ho avuto un’istruzione o conoscenza in scienze esatte,mi sento spesso più vicino ai matematici che ai miei colleghi artisti.”

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In una delle litografie più note, Relatività, del 1953, sedici figure salgono e scendono le scale di un edificio che sentiamo avvolto nel silenzio più monacale, o passeggiano per un giardino improbabile, o siedono ad un tavolo squadrato, secondo tre punti di fuga irrelati e contemporanei. In quell’austero asettico spazio, il movimento ieratico dei personaggi, il gioco rigoroso delle rampe, la precisa astrusità delle porte aperte o chiuse, suggeriscono ritmi di vita operosi e ordinati e non poco inquietanti, che ci ricordano lo stupore e il disagio studiati da Albert Camus nel suo limpido saggio Il mito di Sisifo, (1962):

Anche gli uomini secernono l’inumano. In certe ore di lucidità, l’aspetto meccanico dei loro gesti, la loro pantomima priva di senso rendono stupido ciò che li circonda. Un uomo parla al telefono, dietro un tramezzo a vetri; non lo si ode, ma si vede la sua mimica senza senso: e ci si chiede perché mai egli viva. (tr. it. di Attilio Borelli)

La figura maschile in alto a destra della nostra litografia si sporge dalla ringhiera come per richiamare l’attenzione di qualcuno più in basso, ci sembra: in realtà non guarda da nessuna parte, neppure interroga l’incrociarsi dei tre mondi. La sua funzione è forse strutturale: alleggerisce la massa di buio che grava alle sue spalle, attira il nostro occhio perplesso che cerca punti di riferimento per non perdersi nell’indeterminato. Gradualmente acquistiamo l’equilibrio della fruizione estetica, ci sentiamo appagati mentre seguiamo le linee compositive, sentiamo che è bello perdersi in quel labirinto visionario, assaporiamo infine anche noi la dolcezza che fece desiderare al conte Leopardi il naufragio nel mare dell’infinito.

Nelle litografie di Escher sembra che gli incubi gotici delle Carceri d’invenzione di Giovan Battista Piranesi (1720- 1788), che ricordavano a Samuel Taylor Coleridge e a Thomas De Quincey le visioni causate dall’oppio, si riposino nell’algido ordine di una geometria non più a misura d’uomo.

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Cascata, del 1961, prende le mosse dal triangolo impossibile, la “tribarra”, che il matematico inglese Roger Penrose pubblicò sul British Journal of Psychology nel 1958: si tratta di tre angoli retti legati in modo non realistico, così da formare un triangolo mostruoso la somma dei cui angoli è di 270 gradi. Escher, ispirato da Penrose, il quale peraltro disse di essere stato a sua volta influenzato da Escher, (in un gioco di specchi che moltiplica le curve e le sorprese di questi sconvolgenti labirinti) studiò un edificio che, sfruttando l’idea della tribarra, sfocia in una cascata alimentata da se stessa, come se esistesse l’immobilità in movimento: l’acqua che scorre nel possente canale di scolo in mattoni scende e contemporaneamente sale, facendo girare una ruota di mulino che non può stare dove, invero, fa mostra di sé, e le due torri di uguale altezza creano uno sconcertante dislivello tra i loro piani corrispondenti. Il personaggio che, dal basso, osserva la cascata appoggiandosi al muretto, non sembra sorpreso o divertito o colto dallo stupore esistenziale, come ci sentiamo noi.

Così come è bello tentare di decifrare i segni di una lingua di cui appena riconosciamo qualche fonema, provare a farne risuonare la musicalità, ugualmente ci piace colmare gli occhi delle armoniche aberrazioni di queste litografie, lasciarci cullare dal fascino di quella bellezza insolita. Non ci chiediamo più se suggestioni architettoniche del genere possono esistere nella realtà: la risposta è proprio davanti a noi: la verità non è una idea o un pensiero che presentano fattezze umane, è, forse da sempre, al di là della storia umana, non toccata dalle nostre vicende, sicura dalle nostre mire inquinanti. Come si espresse lo stesso Escher, in un breve saggio sulla sua opera, alcune leggi che ci sorprendono,

non sono scoperte o invenzioni della mente umana, ma esistono indipendenti da noi. In momenti di lucidità si può scoprire che esistono e farne conto. Molto prima che ci fossero persone sulla terra, i cristalli già crescevano nella crosta terrestre. Un giorno, un essere umano per caso rinvenne un siffatto scintillante grumo di regolarità che giaceva sul terreno, o ne batté un altro con il suo attrezzo di pietra, spezzandolo e facendolo cadere ai suoi piedi: allora lo raccolse e lo contemplò nella mano aperta, e stupì.

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