Henry Fielding

Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri

Henry Fielding

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(1707 – 1754)

Nel 1740 fu pubblicato il romanzo epistolare Pamela, di Samuel Richardson: vi si narrano le peripezie di una ragazza quindicenne, Pamela Andrews, che, dotata di innata moralità e di determinazione non priva di calcolo, riesce a sconfiggere il prolungato tentativo di seduzione del potenzialmente malvagio libertino Mr. B., acceso di passione per l’avvenente fanciulla. Addirittura, sfruttando la propria forza e astuzia e l’altrui debolezza, Pamela redime il mancato seduttore e infine diviene sua sposa e quindi, nonostante l’umile nascita, gentildonna.

Nel 1741 apparve una parodia anonima di Pamela, dal provocatorio titolo Shamela (shame in lingua inglese vale “vergogna”), che denunciava sarcasticamente l’ipocrita sfruttamento della virtù per il personale interesse. Shamela è concordemente attribuito a Henry Fielding, al quale Richardson non perdonò mai quel libro. Ma Fielding aveva altro da dire sul tema della virtù: nel 1742 pubblicò Joseph Andrews, in cui si racconta del casto Joseph, improbabile fratello di Pamela, che si scontra con situazioni e personaggi che minacciano la sua purezza di costumi. Come il biblico Giuseppe insidiato dalla moglie di Potifar, il bellissimo Joseph accende la passione di Lady Booby, la signora nella cui casa è servitore, e in una scena argutamente provocante difende la sua verginità dalle non ambigue proposte della focosa padrona che, nuda nel suo letto, chiama a sé il giovane e prova su di lui l’arte della seduzione. L’atmosfera potenzialmente drammatica che incombe su una leggiadra pulzella minacciata da un signorotto dissipato (familiare al lettore italiano che sa delle bieche maldestre trame ordite da Don Rodrigo, incapricciato di Lucia Mondella, per tentare di soddisfare le sue voglie), diviene irresistibilmente comica se l’oggetto delle attenzioni erotiche è un baldo maschio prorompente di vitalità. In una serie di casi avventurosi e spesso farseschi, secondo il modello delle peripezie di Don Chisciotte, il grande eroe di Miguel de Cervantes, Fielding diverte il lettore esponendo la sua visione del mondo: l’origine del male nella società è il comportamento artificioso, cioè la falsità essenziale di cui si vestono uomini e donne, spinti dalla vanità o dall’ipocrisia, i due vizi con i quali ognuno vuole presentare di sé un’immagine ingannevole, ora per boria ora per calcolo.

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Non solo ciascuno è intento alla cura del proprio particulare, come aveva rilevato con disincantato acume Francesco Guicciardini stendendo i suoi Ricordi tra il 1512 e il 1525, ma cerca subdolamente di mascherare l’innato, ossessivo egoismo con i tratti dell’opposta virtù. Donde incomprensioni, spassosi fraintendimenti, protervie pubbliche e private, disavventure lubriche o funeste, corruzione delle istituzioni, avidità generale.

I capitoli del romanzo seguono il protagonista in cammino da Londra al proprio villaggio nel Somerset, dove intende sposare la sua adorata Fanny. Proprio come accade nel Don Chisciotte, incontri e scontri si moltiplicano, sulla strada e nelle taverne, secondo le leggi compositive del romanzo picaresco che, nelle parole di Fielding, diventa, “poema comico-epico in prosa”. La narrazione sarebbe però divenuta, in breve, prevedibile e meccanica, se all’autore non fosse accaduto ciò che era occorso all’amato Cervantes: mentre la storia del Cavaliere dalla triste figura metteva in moto i suoi meccanismi, d’un tratto apparve alla fantasia di don Miguel la figura di Sancio Panza, e l’avventura del fantastico cavaliere prese il volo dalla Mancia verso l’infinito e l’eterno. Nel capitolo 14 del primo dei quattro libri in cui è diviso Joseph Andrews, appare il reverendo Abraham Adams, e d’improvviso un’aura di spontaneità, di leggerezza, di libertà compositiva fa lievitare la narrazione. Il reverendo Adams è l’incarnazione, in tonalità comica, della coscienza cristiana: povero e generosissimo, schietto e impetuoso, ingenuo e intrepido, caritatevole e coltissimo, padre di famiglia e pastore di anime, crede che tutti siano animati dalle stesse virtù, e non fa che imbattersi nella altrui grettezza e meschina duplicità, insomma la frode che, dantescamente, tutto il mondo appuzza. Gli incidenti che investono il buon reverendo Adams, sia alla luce del giorno sia nelle tenebre della notte, sono sempre esilaranti, talvolta crudeli, come accade a Don Chisciotte, che di Adams è il fratello letterario maggiore. Ma nulla può macchiare la sua tempra, che è sorretta e nutrita dalla qualità fondamentale che Fielding chiama good nature, e che noi potremmo tradurre con l’antico termine italiano “cortesia”, ovvero “gentilezza d’animo”. Così il nostro autore spiegò questo concetto nel suo Saggio sulla comprensione dei caratteri degli uomini:

La cortesia (good-nature) è quel temperamento benevolo e amabile della mente che ci predispone a simpatizzare con le sfortune del prossimo, e a trarre diletto dalla sua felicità; ci invita a promuovere quest’ultima, e a impedire le altre; senza bisogno dell’astratta contemplazione della bellezza della virtù, e senza gli allettamenti o i terrori della religione.

E’ memorabile l’improvvisato e appassionatissimo elogio di Omero che il reverendo Adams pronuncia nel corso di una insolita serata nella casa del gentiluomo che lo ospita cortesemente, nel capitolo 2 del terzo libro. Terminando il suo panegirico con l’esclamazione Questo è sublime! Questa è poesia!, Adams recita a memoria più di cento versi in lingua greca, con voce potente e gestualità ed enfasi drammatiche, tanto da spaventare quasi le signore che lo ascoltano.

Nell’onestà intellettuale del reverendo Abraham Adams rifulge la natura tollerante e divertita di Henry Fielding, che volle descrivere non tanto alcuni uomini singoli, quali si potrebbero incontrare in determinate circostanze, quanto i modi di essere degli uomini, cioè i costumi, e che seppe fare sprigionare la forza superiore del riso anche dalle situazioni nelle quali animi più esacerbati avevano provato soltanto disgusto e amare note di condanna.

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