Daniel Defoe

Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri

Daniel Defoe

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(1660 – 1731)

Quando si pensa ad un romanzo si visualizza immediatamente una storia che coinvolge diversi personaggi, le loro interrelazioni basate su reciproca attrazione e repulsione, amore e odio, e ci aspettiamo che le vicende narrate siano ritmate da un dialogato che dia vivacità al racconto: negli scambi verbali tra i protagonisti, i diversi punti di vista sono portati alla luce e le multiformi esperienze del mondo trovano nelle pagine una efficace riproduzione, insieme con una possibilità interpretativa di non secondaria importanza. Così accade con I promessi sposi, ad esempio: entrando in quella storia del diciassettesimo secolo, ascoltiamo la voce del narratore che ci illustra e ci chiarisce il quadro storico in cui si muovono le sue creature; veniamo a conoscenza dei progetti infami, e delle loro ragioni, nelle arroganti battute del prepotente Don Rodrigo; meditiamo sugli accenti di cristiana virtù che informano le parole del padre Cristoforo e del cardinale Federigo Borromeo; udiamo le ragioni degli umili negli sfoghi di Renzo Tramaglino e nelle lacrime di Lucia Mondella.

Daniel Defoe, che può essere considerato il primo importante romanziere della civiltà letteraria europea contemporanea, è riuscito, e al primo tentativo, a costruire un lungo racconto nel quale opera un solo protagonista che vive per anni e anni da solo su un’isola deserta.

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(Riproduzione dell’edizione del 1719)

Per comprendere appieno la rilevanza dell’operazione narrativa di Defoe, occorre riflettere su questo punto: nel momento dell’atto di nascita del romanzo moderno, Defoe sceglie, addirittura, di fare a meno della condizione indispensabile di ogni storia narrata, cioè la società. In società accadono eventi, si stabiliscono alleanze e inimicizie, nascono incidenti favorevoli o svantaggiosi, uomini e donne si incontrano e si scontrano e si nutrono vicendevolmente delle proprie qualità. Il nucleo sociale, sembra, è la vita. Nella sua opera più famosa, Robinson Crusoe, Defoe intreccia il proprio racconto sull’assenza dei rapporti umani: Robinson fa naufragio su un’isola deserta, e lì vive per anni con la sola compagnia dei propri pensieri. E’ una situazione che non soltanto parrebbe escludere la possibilità narrativa, ma favorire allo stesso tempo la disperazione e forse la follia: come fare a non perdere il proprio equilibrio psichico, costretti a vivere giorno dopo giorno senza potere comunicare con chicchessia?

Daniel Defoe trova la soluzione creando, con Robinson Crusoe, la figura del moderno uomo economico, che senza aiuti esterni progetta e realizza sulla propria isola la ottimale organizzazione della vita: sfruttando la sua ragione e le risorse della intraprendenza mercantile che nel diciassettesimo secolo iniziava a cambiare i rapporti di forza nel vecchio mondo, Robinson doma la natura selvaggia, impone il suo ordine alle vergini forze lussureggianti delle piante e degli animali che lo circondano e, quando il fato gli porta in dono un aiuto nella persona di Venerdì, il selvaggio che egli salva dai cannibali, il nuovo venuto diviene il fedele servitore di cui il padrone ha bisogno per completare la sua opera. L’intento di considerare la vita come un gioco contabile in cui l’avveduto protagonista nota con precisione guadagni e perdite della sua avventura, è manifestato all’inizio dell’esperienza di Robinson sull’isola, dopo la fatale tempesta: invece di abbandonarsi alle lacrime, il grande naufrago organizza le sue considerazioni secondo lo schema delle colonne del dare e dell’avere, come fa un negoziante quando stila il resoconto della propria attività:

Male

Bene

Sono su un’isola deserta, orribile, desolata, senza speranza di soccorso.

Ma sono vivo, mentre i miei compagni sono tutti annegati.

Non ho abiti con cui coprirmi.

Ma il clima è così caldo che gli abiti sarebbero un impiccio.

Non ho armi con cui difendermi.

Ma non ci sono pericoli su quest’isola.

E così via.

E’ grazie a questa resilienza spirituale e alla fiducia nelle proprie capacità imprenditoriali che Robinson Crusoe è divenuto la personificazione dell’avventuriero europeo, portatore di civiltà nel mondo mentre sfrutta ogni possibile risorsa per il proprio interesse: incarna il lato buono dell’imperialista, l’uomo nuovo britannico che nel volgere di due secoli costruì un dominio senza precedenti sul pianeta. Come Robinson Crusoe, quest’uomo nuovo fece uso e delle armi, che la tecnologia rendeva sempre più devastanti, e della Bibbia, che in ogni occasione gli forniva il supporto religioso che faceva d’uopo. Divenire ricco e potente è, in quest’ottica puritana, un ulteriore segno del favore divino.

Daniel Defoe rielaborò il materiale grezzo della vita del marinaio scozzese Alexander Selkirk, che visse dal settembre 1704 al febbraio 1709, in completa solitudine, sull’isola Más Afuera dell’arcipelago Juan Fernández, circa cinquecento chilometri ad ovest della costa cilena, nell’Oceano Pacifico. Il resoconto di quegli anni straordinari era apparso sulla rivista The Englishman del 3 dicembre 1713, a firma del brillante saggista Richard Steele. Da quel testo nacque non soltanto un personaggio, Robinson Crusoe, ma un mito, più vivo e più duraturo di qualunque figura di carne e di ossa e di sangue.

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(Robinson e Friday)

Defoe fu autore fecondissimo di romanzi, opuscoli, trattati, giornali, racconti, poesie, saggi. La sua morte è avvolta nel mistero. Commentò James Joyce nella sua conferenza in italiano sul “primo scrittore inglese il quale scrive senza copiare né adattare le opere straniere,” tenuta nel marzo 1912 all’Università Popolare triestina:

Eppure nella sua morte solitaria e strana nell’alberguccio di Moorsfield vi è qualcosa di significativo. Egli che immortalò lo strano solitario Crusoe e tanti altri solitari perduti nel mare magno della miseria sociale come Crusoe nel mare delle acque sentiva forse coll’avvicinarsi della sua fine la nostalgia della solitudine. Il vecchio leone va in un luogo appartato quando viene la sua ora suprema.

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