Dante

Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri

Dante Alighieri

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(1265 – 1321)

Giunto al fondo dell’immenso tenebroso pozzo infernale, dopo avere sceso tutti i cerchi della umana degradazione e avere incontrato, nonostante ciò, personaggi di straordinaria nobiltà e rettitudine come Francesca da Rimini, dolce e bella ed eterna ispiratrice di passione; come Farinata degli Uberti (ancora ci echeggia nella mente il timbro altero e intimorente delle sue parole, allorché apostrofa Dante dall’avello infuocato: “O Tosco che per la città del foco / vivo ten vai così parlando onesto / piacciati di restare in questo loco”); come Pier della Vigna nella inquietante selva dei suicidi; come il maestro della gioventù fiorentina Brunetto Latini, ora sul sabbione ardente ove si puniscono i sodomiti, che strappa a Dante l’accorata domanda: “Siete voi, qui, Ser Brunetto?”; come Ulisse, l’uomo dal multiforme ingegno cui la potenza creativa di Dante sa donare nuovo, affascinante, inesauribile incanto, sì che mai scorderemo i versi con cui descrive se stesso, e che definiscono la vera intellettuale curiosità che differenzia l’uomo dai bruti: “l’ardore / ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto, / e delli vizi umani e del valore”; nel silenzio e nella stasi del lago di ghiaccio, appena turbato dal battere dei denti (“in nota di cicogna”) dei dannati infissi nel lastrone algido in cui è trasformato il Cocito dal vento creato dalle ali di Satana, tra poco Dante Alighieri Fiorentino leverà uno dei canti tragici di più sconvolgente, sublime natura, della poesia mondiale.

L’impressionante intensità del racconto del Conte Ugolino rimane ineguagliata: tanto disperato dolore, risolto in cadenze di così sicura maestria prosodica, è difficile da rinvenire persino nei cori di Eschilo, persino nei monologhi più celebrati di William Shakespeare: e ci si trova in questi casi, Lettore, sulle vette poetiche della civiltà letteraria dell’uomo.

L’inizio è già indimenticabile: “Tu vuo’ ch’io rinnovelli / disperato dolor che ‘l cor mi preme / già pur pensando, pria ch’io ne favelli.” Impallidisce al confronto il lontano precedente virgiliano. Nel secondo dell’Eneide, Enea si accinge a raccontare la cruenta corrusca fine di Ilio, su invito della regina Didone; infandum, confessa l’eroe, regina iubes renovare dolorem: mi comandi, o regina di riportare alla memoria un dolore indicibile, cioè la morte della mia città, dei miei cari, dei tanti suoi eroi. In-fandum è ciò di cui non si può parlare, perché di troppo sopravanza la capacità umana di sopportazione. Ma “disperato” è ciò che non dà luogo al sorgere di nessuna luce ormai, è la tenebra densa, sorda e greve ed eterna. Le parole del Conte, spietate mentre evocano il dettagliato, quasi scientifico resoconto della sua straziante agonia, raggiungono e pongono definitivamente il limite alla verbalizzazione dell’umano strazio. Neppure le lacrime possono porgere, scorrendo, sollievo al chiuso orrendo tormento che mai non abbandona il petto; l’aria glaciale che le frena, congelandole al di qua delle ciglia, è il correlativo oggettivo dell’interno bestiale stupore, dell’inappellabile condanna. Nessuno ha mai saputo osare tanto,

Nella tetra cella in cima alla Torre della fame, gli infelici prigionieri odono l’eco del chiavistello che, in basso, chiude per sempre la porta di accesso: non più verrà loro portato il cibo giornaliero, il legame che manteneva la loro appartenenza al consorzio umano è stato reciso. Colui che fu accusato di tradimento per avere ceduto alcune posizioni fortificate al nemico, diviene la vittima innocente del più infido inganno; i suoi figli e i suoi nipoti sono condannati insieme con lui a un’ orribile ingiustificata sorte. Lente, pesanti si susseguono le ore nel muto carcere, solo la furia patetica e cieca di Ugolino, che si addenta le mani a causa dell’insopportabile dolore, per un attimo smuove quell’aria densa e fosca: i figli offrono allora (struggente innocenza) le loro carni, pensando che il genitore senta i morsi della fame.

Nell’immobilità e nell’assenza di parole si compie ciò che deve accadere: i corpi si indeboliscono e si spengono. Uno dopo l’altro Gaddo, Anselmuccio, Uguiccione e il Brigata scivolano nella morte. Il Conte Ugolino brancola su quei poveri cadaveri ancora per due giorni, chiamandoli, già cieco, fino a che le forze glielo permettono. Poi anch’egli giace.

Non troverà, purtroppo, la pace ma il tormento eterno riservato ai traditori della patria. La sua furia, però, potrà sfogarsi azzannando senza requie il teschio di chi lo condannò a tanta pena. La poesia di Dante Alighieri trasformerà quella tragedia individuale e cupissima nel canto che, pur provenendo dal fondo della perdizione, si libra potente sopra tutti i secoli, e continuerà a risuonare e a commuovere “finché il Sole / Risplenderà su le sciagure umane.”

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(Illustrazione di Gustave Doré)

Attilio Momigliano, che dettò il più affascinante commento della Divina Commedia nei nostri tempi, attento e sensibilissimo alla poesia dantesca e al suo fascino inesauribile, così si espresse a proposito di questo episodio:

Sono queste le pagine più dense e serrate della Divina Commedia: una superiore armonia fonde insieme la situazione, l’ambiente, le persone – illuminate e distinte da quella penna sicura e veloce: l’uomo,muto; Anselmuccio che intuisce l’angoscia del padre con la sicurezza delle intuizioni puerili; Gaddo che muore aggrappandosi senza speranza alla protezione del padre; il coro dei quattro figli che si alza impetuoso e con la sua assurdità sublime dà la misura di quell’agonia senza rimedio -. In questo episodio il sublime non è un punto, ma una linea continua dal principio alla fine. Se si giudica il sublime, non sul metro delle proporzioni materiali ma di quelle ideali, si vede che la maggiore sublimità del poema non è nell’immensità del Paradiso, main quest’episodio e nell’annichilimento di Dante di fronte alla visione che chiude l’ultima cantica.

A Pisa, nella piazza che ospita la Scuola Normale di Studi Superiori, è il luogo ove si svolse la tragedia. Una targa ricorda la torre infame, che è stata demolita da tempo. Ma il viaggiatore appassionato, se si concentra, può immaginare l’antico edificio, la pesante porta inchiavardata, e, sollevando gli occhi, discernere la stretta fessura tra le pietre, dietro la quale la luce piano si oscurò per quelle tristi vittime.

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(Il conte Ugolino, immaginato da William Blake)

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Una risposta a Dante

  1. Paola capaccioli scrive:

    Ottimo lavoro!!! Complimenti per la vasta e profonda cultura e la capacita’ comunicativa.
    Paola capaccioli

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