Ippolito Nievo

Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri
Ippolito Nievo
(1831 – 1861)


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Le Confessioni d’ un italiano, il cui titolo originale, a causa della censura, fu mutato in Le Confessioni d’ un Ottuagenario dall’editore Felice Le Monnier di Firenze, allorché lo pubblicò in due volumi nel 1867, sta nel novero delle grandi opere narrative dell’Ottocento italiano, non inferiore né al monumento manzoniano, prima, né ai romanzi di Giovanni Verga, poi. Neppure sfigura accanto alle straordinarie produzioni del romanzo europeo, da Balzac a Stendhal a Flaubert a Dickens, fino ai giganti Dostoevskij e Tolstoj.

La prima sorpresa che il lettore prova scorrendo la biografia di Nievo, è che l’ottuagenario che si presenta subito come narratore, è dovuto alla penna di un autore tra i ventisette e i ventotto anni, giovanissimo quindi, ma in grado di rendere plausibile e convincente la voce di un vecchio che ripercorre la storia recente, complessa e dolorosa, del farsi dell’Italia. Non solo: Nievo, che lavorò al romanzo tra la fine del 1857 e l’agosto dell’anno successivo, scrivendo “notte e giorno; anzi, più la notte che il giorno,” non ebbe tempo per la revisione del lunghissimo testo, impegnatissimo in altri progetti letterari e nelle trattative con gli editori, oltre che nella spedizione dei Mille a cui l’aveva invitato lo stesso Giuseppe Garibaldi. Ultimo impedimento, e irreparabile, fu il tragico naufragio del piroscafo Ercole, sul quale ritornava da Palermo al continente.

Le parole con cui prende avvio il ponderoso romanzo, composto di più di 1.000 fittissime pagine sono rivelative: “Io nacqui Veneziano ai 18 ottobre del 1775, giorno dell’evangelista San Luca; e morrò per la grazia di Dio Italiano quando lo vorrà quella Provvidenza che governa misteriosamente il mondo.” Il pronome personale di prima persona è la parola iniziale del libro, quasi un omaggio alla poetica romantica che esaltava la sensibilità e l’importanza del soggetto; poi è suggerita la Storia come partecipazione dell’individuo alla vita comunitaria, nella ricerca dell’attuazione del difficile progetto di redenzione della patria; c’è infine l’accenno alla sfera sovratemporale, come confessione dell’inestinguibile anelito, pur nella posizione critica nei confronti di chiese e rituali, verso l’infinito, che è l’apertura delle possibilità. Questi, mi pare, sono i tre temi fondamentali che vengono inseguiti e sviluppati nel corso della narrazione, incarnati negli eventi che effettivamente si svolsero nella nostra penisola e nei personaggi a cui la fantasia creativa di Ippolito Nievo dà forma e consistenza. Il romanzo termina quando il narratore ha 83 anni, nel 1858, alla vigilia della dichiarazione, da parte di Cavour, della nascita del Regno d’Italia, nel 1861.

Carlo Altoviti, la voce narrante, giunto “al limitare della tomba, già ormai solo al mondo, abbandonato così dagli amici e dai nemici, senza timori e senza speranze che non siano eterne,” riconsidera le figure che hanno segnato il suo cammino: presenze-assenze ora memorabili ora elusive, ma tutte segnate da una vivacissima valenza personale. Tra i personaggi si distacca la Pisana, la fanciulletta che appare subito graziosissima e capricciosissima e indomabile negli ambienti fascinosi del castello di Fratta, l’unica vera anima amica del garzone di cucina Carlino, non ancora riconosciuto come legittimo membro della famiglia. In equilibrio sul confine tra petulante e maliosa, la Pisana non cade mai nell’irritante e nell’artificiale, è una creazione di vitalità e di mistero femminile che non cessa di sedurre, rimarrà l’unico grande inesauribile stupendo amore di Carlino. La di lei sorella, Clara, è una creazione diversa e quasi complementare: dolce, paziente e di profondo sentire, sa essere dura abbastanza per negarsi (e negare altrui) l’esperienza dell’amore. La Contessa di Fratta, madre delle due ragazze, è uno studio arguto e raffinato della tirannia muliebre, reso più memorabile dalle risorse offerte dalla caricatura: il suo progressivo declino a causa della schiavitù infernale al gioco d’azzardo è un’eccellente analisi degli effetti di una passione dominante sull’animo e sul corpo. Altri ritratti indimenticabili di donne sono quelli dell’Aglaura, dell’Aquilina, della Doretta, e della Contessa Migliana, che non nasconde il suo debole per i giovanotti che sono introdotti nel suo palazzo milanese.

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Dal nucleo originario, concentrato sui luoghi di Fratta e dintorni, il romanzo si allarga a considerare Venezia e la sua decadenza, vista anche attraverso le vicissitudini delle famiglie Frumier, Venchieredo, Partistagno, Apostulos, Navagero, oltre che di figure storiche quali Ugo Foscolo e Lord Byron. Il flusso narrativo include anche un incontro ravvicinato di Carlino con il giovane generale Napoleone Bonaparte, poi impietosamente rivisto quando “l’Imperatore si era fatto grasso, e s’avviava allora alla vittoria di Austerlitz.” Fanno parte della narrazione i moti di indipendenza della Grecia contro l’occupazione ottomana; la descrizione di Londra al tempo in cui ancora vi si muovevano i poeti dell’età romantica; la rivisitazione dei moti appassionati e confusi del nostro Risorgimento, nel turbinoso lampeggiare e spegnersi del fuoco rivoluzionario tra il nord e il centro e il sud della penisola; l’evocazione di fatti di vita e di morte nel Nuovo Mondo, tra New York e l’Argentina. Un personaggio che fa da tramite tra l’anelito all’ideale e il coraggio di abbracciare il quotidiano, tra la storia dei popoli e quella dei singoli, è il dottor Lucilio Vianello, che vive gli sconvolgimenti del suo tempo con lucida partecipazione, pur soffrendo, giorno dopo giorno, dell’assenza della sua adorata Clara, ma che si rifiuta di  soccombere al sentimento di autodistruzione reso popolare in Europa da Werther e da Jacopo Ortis. Come il poeta inglese John Dryden disse, a proposito dei Racconti di Canterbury di Geoffrey Chaucer, “qui è l’abbondanza divina,” altrettanto si potrebbe ripetere delle Confessioni di Ippolito Nievo.

Tra le descrizioni che rimangono indimenticabili è quella della fontana di Venchieredo, la limpida sorgente chiusa in un tondo di pietre squadrate, introdotta nel romanzo quando Leopardo Venchieredo, nobiluomo dal retto sentire, vede la giovine Doretta che, seduta sul bordo, mollemente agita l’acqua col piede nudo per attirare i pesciolini: “Ella sorrideva, e batteva le mani di quando in quando allorché le veniva fatto di toccar colla punta del piede e sollevar dall’acqua alcuno di quei pesciolini. Allora la pezzuola che le sventolava scomposta sul petto s’apriva a svelar il candore delle sue spalle mezzo discinte, e le sue guancie arrossavano di piacere senza perdere lo splendore dell’innocenza.”

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Ippolito Nievo sa evocare la forza dell’attrazione erotica con calda partecipazione nel corso del romanzo, ripetutamente, senza forzature o trasgressioni o timori.

Per chi visita, ancor oggi, le rovine del Castello di Fratta, tra il Lemene e il Tagliamento, la Fontana di Venchieredo, tra “sentieruoli nascosti e serpeggianti, sussurrio di rigagnoli, chine dolci e muscose,” i Mulini di Stalis, poco distanti, “le cui ruote parevano corrersi dietro spruzzandosi acqua a vicenda come tante pazzerelle,” e poi Teglio e Cordovado e San Vito al Tagliamento, l’ incanto delle pagine di Nievo è sempre avvertibile, è sempre intenso.

I paragrafi finali del romanzo alternano i toni del comico dello struggente del patetico. Carlo Altoviti sa parlare con la virile malinconia che non cede al sentimentalismo, volgendo un ultimo sguardo equanime al suo passato: gli occhi possono colmarsi di umidità, ma la serena accettazione di ciò che deve accadere fra breve non è scossa. Il suo estremo sfogo lirico è un canto d’amore per l’indimenticabile Pisana. L’ultima parola del lunghissimo racconto è “soavemente”: l’avverbio lascia nel lettore l’eco di una musicalità dolcissima, invitando l’immaginazione a considerare vaghi spazi che sperabilmente conforteranno gli occhi che stanno per chiudersi ai colori e alle passioni di questo mondo, nell’attesa della condizione senza tempo in cui passato presente futuro saranno trascesi, e i morti e i vivi non saranno più schiavi di questa opposizione.

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