Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri
Henri Beyle, Stendhal
(1783 – 1842)
Tra le grandi personalità che amerei incontrare se fosse possibile viaggiare nel tempo, ovvero se esistessero i mitici Campi Elisi ove, oltre la morte, fosse finalmente possibile coltivare il bello e il vero in eletta compagnia, sicuramente è Stendhal, autore di due tra i maggiori romanzi della letteratura mondiale, Il Rosso e il Nero (1830) e La Certosa di Parma (1839). Aprire un libro di Stendhal è, subito dalle prime pagine, sentire quella felicità esistenziale che lo scrittore confessava di provare nell’esercizio della letteratura, sia leggendo opere altrui che componendo le proprie. E’ una felicità (bonheur, nel dettato stendhaliano) che è insieme nostalgia di ciò che provammo fanciulli, quando la vita era perfetta armonia da un levar del sole all’altro, e promessa di soluzione del travaglio e della noia che troppo spesso ci opprimono; è il manifestarsi, in frasi belle e perfette come tanti brani musicali di Mozart che Stendhal adorava, della compiuta condizione umana che tutti speriamo di conoscere infine, quella in cui ogni cosa che sia brutta e sporca e irritante sia finalmente scacciata.
Stendhal sa ricreare la felicità dipingendo da maestro l’anima bella di un personaggio, o lo splendore indimenticabile di un luogo, come nella seguente descrizione dei dintorni del castello di Grianta, sul lago di Como, con
la villa Melzi sull’altra riva del lago, di fronte al castello che gli fa da punto focale; più sopra il bosco sacro degli Sfondrata, e l’ardito promontorio che separa i due rami del lago, quello di Como, pieno di seduzione, e quello che corre verso Lecco, pieno di austerità: vedute sublimi e piene di grazia, che il posto più famoso del mondo, la baia di Napoli, eguaglia ma non può sorpassare.
Il brano citato proviene dal romanzo La Certosa di Parma, nel quale Stendhal racconta la storia affascinante e coinvolgente di Fabrizio Del Dongo, giovane innamorato di Napoleone e degli ideali che l’Imperatore seppe ispirare nella gioventù d’Europa tra gli anni della Rivoluzione francese, 1789, e quelli de Congresso di Vienna, 1815; di Gina Pietranera, poi duchessa Sanseverina, personalità seducente e sagacissima, secondo la tradizione delle donne eccezionali che l’Italia produsse nei secoli e che Stendhal aveva già ricreato nelle sue Cronache Italiane; del Conte Mosca, primo ministro del principe di Parma, nel quale Stendhal dà la propria versione del principe di Metternich, duce e regista della diplomazia europea e inflessibile ispiratore della Restaurazione in occasione del Congresso di Vienna; del buon abate Blanes che ama sinceramente Fabrizio, di Clelia Conti, figlia del temibile governatore della fortezza-prigione di Parma, e di tanti altri personaggi di questa storia sorprendente che ad ogni lettura cattura con la stessa forza ammaliante della prima volta.
(Fabrizio Del Dongo e Clelia Conti, in un adattamento filmico del romanzo)
Le tante pagine stupende dedicate alla battaglia di Waterloo, vista e non vista da Fabrizio che si muove intorno e dentro di essa ma per tutta la vita si domanda se davvero vi prese parte, sono un capolavoro di descrizione e di inventiva: ancor più sorprendente perché Stendhal non vi prese parte e sfruttò ricordi e testimonianze di un’altra epica battaglia napoleonica, quella combattuta nei pressi di Mosca, a Borodino, nel 1812, per farla rivivere. Neppure l’anima non violenta di un seguace di Mahatma Gandhi si sente offesa a percorre e ripercorre quei passi stendhaliani, perché anche i corpi immoti che Fabrizio incontra sul suo cammino mentre si muove tra i colpi assordanti dei cannoni e dei fucili, non moriranno mai, grazie al miracolo dell’arte: Italo Calvino considerava quelle pagine, e questo romanzo, il vertice della narrativa europea. La seconda parte del romanzo fa ruotare i suoi ingranaggi nella città di Parma, alla corte del dispotico Ranuccio Ernesto IV. La forza creativa di Stendhal fu messa in moto da un manoscritto che l’autore amava studiare, intitolato Origini delle Grandezze della famiglia Farnese: vi si narrano le vicende, tra l’altro, di Vannozza Farnese, affascinante gentildonna di Roma che fu amante di Roderigo Borgia (il futuro sinistro papa Alessandro VI), grazie all’aiuto del quale riuscì a favorire la carriera del nipote Alessandro Farnese, che poi salì al soglio pontificio col nome di Paolo III. Gli intrighi i tradimenti i delitti i misteri di quell’antica cronaca divengono l’intreccio e i personaggi di una storia moderna indimenticabile.
Honoré de Balzàc, di cui questa rubrica ha già presentato qualche aspetto, conobbe Stendhal e lo ebbe in grande stima. Pochi mesi dopo la pubblicazione di La Certosa di Parma, fece apparire un lungo articolo sulla Revue Parisienne del 25 settembre 1840, in cui, dopo avere sottolineato che il romanzo inizia a svelare la perfezione del suo ordito a partire almeno dalla seconda lettura, disse:
. . . M. Beyle ha scritto un libro nel quale il sublime risplende di capitolo in capitolo. Ha composto, in un’età in cui gli uomini raramente trovano dei soggetti grandiosi, e dopo avere scritto una ventina di volumi colmi di spirito, un’opera che non può essere apprezzata che dalle anime e dalle persone davvero superiori. Insomma, ha scritto Il Principe Moderno, il romanzo che Machiavelli scriverebbe se vivesse bandito dall’Italia nel XIX secolo.
(La certosa di Paradigna, presso Parma)
Due curiosità, a mo’ di temporanea conclusione:
1) le ultime parole del romanzo, quasi una stretta di mano dell’autore, o un suo sguardo di intesa al lettore ideale, sono TO THE HAPPY FEW. Non il successo di massa stava a cuore a Stendhal, ma la comprensione e l’amore delle anime cresciute in gentilezza e cortesia.
2) Il suo nome d’arte l’autore lo prese da una cittadina prussiana in cui si trovò a passare al seguito di Napoleone: Stendal (senza la h) diede i natali, nel 1717, al grande archeologo e storico dell’arte Johann Winckelmann, che a lungo operò in Italia tra Ercolano e Pompei e Paestum.