Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri
Sallustio
(86 a. C. – 36/35 a. C.)
L’opera di Gaio Sallustio Crispo nota come De coniuratione Catilinae (La congiura di Catilina) con la quale nasce, di fatto, la grande storiografia latina che poi annovererà tra i suoi nomi immortali Tito Livio e Tacito, inizia con una riflessione che non si dimentica:
Tutti coloro che si propongono di sollevarsi al di sopra del regno animale, devono operare con la massima energia (“summa ope niti decet”) per non passare neghittosamente la loro vita quasi fossero bestie, che la natura modellò (“finxit”, dal verbo “fingere“, nel suo significato originale di “modellare,” “plasmare,” di cui si ode ancora qualche eco nel v. 7 dell’Infinito di Giacomo Leopardi) con i musi volti a terra, e in totale schiavitù del ventre.
Di coloro che, contro natura, si servono del corpo come unica sorgente di piacere, stimando l’anima alla stregua di una sgradevole soma, Sallustio considera che la vita non è diversa dalla morte, e su di essi non intende sprecare parole. Dopo avere così sprezzantemente liquidato chi non è degno di essere accolto nel numero degli uomini, Sallustio inizia a narrare la storia della congiura di Catilina ai danni della Repubblica di Roma: il capitolo quinto è come un nuovo inizio dell’opera, ed è altrettanto indimenticabile quanto il primo capitolo del libro:
Lucio Catilina, nato da nobile stirpe, ebbe grande vigore di corpo e di mente, ma un’indole malvagia e depravata. Fin dalla prima giovinezza si trovò a proprio agio nei tumulti, nei fatti di sangue, nelle rapine, nella discordia fra i cittadini. Grazie al suo fisico straordinario sapeva sopportare digiuni, freddi e veglie; il suo animo fu ardito, infido, mutevole, simulava e dissimulava in tutto ciò che gli tornava utile.
Ci addentriamo nelle trame tenebrose e labirintiche di questo campione del male con interesse e partecipazione crescenti, mentre la austera narrazione di Sallustio ricrea e condanna il mondo corrotto degli ultimi anni della Repubblica, dopo i nefasti decenni delle lotte sanguinosissime tra Mario e Silla e la spietata dittatura di quest’ultimo. Intravediamo l’inizio della carriera politica di Gaio Giulio Cesare, che si aprì la strada verso la gloria con cautela e scaltrezza straordinarie, forse non vedendo di completo malocchio il tentativo di Catilina. Il libro di Sallustio, che fu seguace di Cesare, rende chiaro che vi può essere grandezza d’animo anche nella perversità: Catilina tesse complotti, in particolare contro il console Cicerone, da lui odiatissimo soprattutto dopo che pronunciò con fervore le infuocate orazioni catilinarie; organizza e istruisce e incoraggia i suoi complici; appronta un esercito di non scarsa forza; profonde ingenti quantità di danari nella sua causa; esorta, ammonisce, minaccia: non cede mai né al dubbio né alla stanchezza né allo sconforto, e quando tutto è perduto non si dà alla fuga, ma si lancia senza far motto nel folto della mischia, quando le sorti della battaglia finale sul campo di Pistoia sono ormai decise.
Secondo la tradizione storiografica antica, la narrazione di Sallustio, che sa magistralmente ricreare non solo i personaggi, come la spregiudicata Sempronia, dotta di lettere greche e latine e non indotta delle cose della lussuria, ma anche i luoghi, come il cupo carcere Tulliano, dove si consumò il destino di tanti cospiratori, si accende allorché l’autore reinventa le apostrofi o i discorsi dei protagonisti. Non si tratta di documenti autentici che riportano proprio le parole pronunciate dai personaggi; sono piuttosto libere ricostruzioni, cioè quello che Catilina o Cesare o Catone avrebbero potuto dire, data la loro personalità e il momento in cui ebbero a parlare e le ambizioni che li muovevano, in quelle circostanze. Questi discorsi diretti-indiretti sono costruiti secondo le regole classiche delle orazioni, dall’exordium alla conclusio. Similmente il grande storico Tucidide fece parlare, nella sua Guerra del Peloponneso, Pericle e Agesilao e il generale Nicia. Sono notevoli, nel libro di Sallustio, i due interventi, uno dopo l’altro e l’uno opposto all’altro, che Giulio Cesare e Marzio Porcio Catone pronunciarono in Senato: Cesare, pur condannando il disegno eversivo, chiede che la Repubblica mostri senso della misura nella scelta della pena da infliggere ai colpevoli, perché quanto più lo stato è forte e stabile, tanto meno sarà mosso dall’odio e dall’ira e dagli altri sentimenti che inquinano la ragione: un capolavoro di retorica e di politica. Catone, inflessibile, chiede la pena capitale, perché chi chiede indulgenza dimostra di avere smarrito il significato delle parole, e quando la lingua diviene imprecisa è vicina la disfatta dello stato.
A Catilina vengono attribuite due allocuzioni: nella prima, allorché cerca di infondere coraggio nei suoi compagni di misfatto, Sallustio fa maliziosamente echeggiare l’esordio della prima Catilinaria di Cicerone: Quousque tandem abutere, Catilina, patientia nostra, aveva declamato in Senato il console, da Catilina disprezzato come homo novus, inquilino dell’urbe, “villan rifatto,” diremmo noi; nella notte del giuramento nella parte più interna della propria casa, il capo della congiura domanda ironicamente a chi lo segue, Quae quousque tandem patiemini, o fortissumi viri, “Fino a quando, voi che siete arditi senza pari, sopporterete tale stato di cose?” Le parole rivolte ai suoi soldati prima della battaglia di Pistoia sono un brillante compendio di determinazione, di coraggio, di orgoglio, di protervia, di responsabile accettazione del proprio ruolo: un animo grande, seppure malvagio, non vacilla quando la situazione avversa lo minaccia. L’audacia sarà la loro migliore difesa, ricorda Catilina ai suoi legionari, se lasceranno la vittoria a chi li fronteggia, che sia pagata con il sangue e con i lutti, cruentam atque luctuosam victoriam hostibus relinquatis.
Le virtù di stile e di romanità di Sallustio esaltarono l’animo di Vittorio Alfieri, la cui versione della Guerra di Catilina fu iniziata nel 1775 e più volte rielaborata fino alla stesura definitiva del 1793. Così si espresse l’autore nella sua autobiografia, intitolata Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da esso:
Dopo Orazio intero, avea letti e studiati ad oncia ad oncia più altri autori, e tra questi Sallustio. La brevità ed eleganza di quest’istorico mi avea rapito talmente, che mi accinsi con molta applicazione a tradurlo; e ne venni a capo in quell’inverno [1776]. Molto, anzi infinito obbligo io debbo a quel lavoro; che poi più e più volte ho rifatto, mutato e limato, non so se con miglioramento dell’opera, ma certamente con molto mio lucro sì nell’intelligenza della lingua latina, che nella padronanza di maneggiar l’italiano.
Bravo! Viene voglia di rileggere Sallustio…
Anche io lo adoravo.
Paola capaccioli