Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri
John Keats
(1795 – 1821)
John Keats morì giovane, nell’appartamento che fiancheggia la Scalinata che sale da Piazza di Spagna alla Trinità dei Monti, a Roma. Sapeva che nel suo sangue scorreva il male che aveva reciso la vita del fratello Tom quando questi aveva solo diciotto anni.Conosceva anche i dolorosi stadi del calvario di un malato di tubercolosi, avendo seguito senza risparmiarsi l’agonia del fratello: la tosse, la febbre, i brividi di freddo, le impossibili cure che la medicina del tempo riduceva a inutili salassi e a inflessibili, crudeli divieti di nutrirsi. I dubbi sulla durata della sua vita gli avevano ispirato accorati versi sul valore dell’esperienza umana: qual è il significato dei nostri anni se quello che sentiamo che potremmo produrre e comunicare può venire improvvisamente troncato dall’indifferente falce della morte? I nostri sogni di gloria e di calore umano si frantumano e cadono come castelli di carte, e restiamo attoniti a contemplare l’infinito nulla sul quale galleggiamo: allor sul limitar/ del vasto mondo sto solo e pensoso/ finch’amore e fama calan nel nulla.
Nel ciclo delle sue sei grandi Odi, Keats raggiunge il vertice della sua arte preziosa, mettendo in versi temi e motivi che hanno occupato a lungo le menti dei filosofi: i rapporti tra arte e vita e morte. In particolare, nell’Ode sopra un’urna greca, il poeta evoca ed esprime in forme smaglianti e definitive la fragile magia che un manufatto umano nato dal bisogno e dal richiamo della bellezza (un’urna istoriata proveniente dall’antica civiltà greca, da poco giunta a Londra) fa nascere; contemplandola, John Keats sente che il tempo si ferma, addirittura gli sembra di sfuggire alla sua tirannia, i crucci della quotidianità lo abbandonano: la bellezza schiude le porte del mondo della verità, la bellezza, anzi, è la verità. E’ scomparso in quel momento privilegiato il timore dell’ignoto, il poeta è stato inondato dalla luce della rivelazione. Che importa se quell’estatica intuizione non durerà? È stata assaporata, l’artista (e con lui l’attento, sensibile lettore) sa che potrà ancora richiamarla, con impegno e con fiducia. Così la voce del poeta si rivolge all’urna:
Tu resterai frammezzo altri dolori
amica dell’uomo, al quale tu dici
‘Il bello è vero, vero solo il bello.’
Nient’altro è lecito sapere al mondo.
Un sonetto non molto noto di John Keats inizia con una domanda che pare irrilevante ma che diviene fonte di inquietudine se vi poniamo mente, Why did I laugh to-night? Perché ho riso questa sera? Accadono nella esperienza quotidiana occasioni nelle quali reagiamo con scoppi di passione imprevisti agli stimoli che si presentano alla nostra coscienza. Sentiamo, volta a volta, irritazione o gioia o sconforto o ilarità. Le reazioni sono quasi sempre sciolte dal momento della consapevolezza: accadono, semplicemente, e noi siamo in quegli istanti compiuti in esse, tutt’uno con esse. Poi giunge il momento della riflessione, dello sguardo critico posato su noi stessi: perché ci siamo comportati in quel tal modo? Perché quello scoppio di riso sul fondo delle tenebre che ci circonda? Allora le chimere della vita ci si presentano nella loro più evidente inconsistenza, la fama l’arte la grazia sono vere e intense, certo, ma Morte è più intensa, Morte pare l’unico alto premio della vita. Su queste note termina il sonetto, ma non credo che il poeta canti qui in versi il taedium vitae, quel fastidio esistenziale che spinge alla malinconia o alla disillusa inattività: l’accurata e leggera tessitura formale del componimento crea alle nostre orecchie un troppo evidente contrasto con tale cupa visione, e Keats, per parte sua, non rinunciò mai a scrivere e a sognare la gloria. Piuttosto il suo occhio acuto colse l’ineluttabile modalità delle nostre vite: talvolta, pur vagando tra la densa caligine dell’ignoranza, tanto che scorgiamo la luce soltanto se ci volgiamo indietro, perché è alle nostre spalle, e davanti si apre l’insondabile baratro della morte, ecco che, sorprendentemente, ci coglie il riso invece che il pianto. La tragedia si volge in commedia, ci confonde e insieme ci affascina e ci attira, come accade a Macbeth all’inizio del suo dramma, allorché le tre streghe cantano Fair is foul and foul is fair, Bello è brutto e brutto è bello.
Le formule matematiche e la dialettica più rigorosa non svelano l’essenza delle nostre passioni e delle nostre reazioni: il grumo esistenziale rimane compatto e refrattario alla luce che lo vuole sondare. Il punto di vista corretto che permette di intendere la natura del nostro labirinto senza pretendere di semplificarlo, pare essere quello enunciato dallo stesso Keats circa due anni prima di questo sonetto; in una lettera ai fratelli il poeta discute il concetto di Capacità Negativa, la qualità, viene specificato, che contraddistingue l’uomo di genio e che William Shakespeare possedeva in sommo grado: è quella capacità, accenna Keats senza dilungarsi troppo, che ci permette di restare nell’incertezza e nel mistero e nel dubbio senza l’impazienza di correre dietro ai fatti e alla ragione. Armati della Capacità Negativa, che può donarci equanimità di giudizio, anche se l’oscurità più fitta si chiude intorno ai nostri corpi, ci può capitare di udire, e di condividere, le corpose note del riso di Falstaff, il grande personaggio comico creato da Shakespeare: allora il “male di vivere” inizia a splendere di luce nuova, e la ricchezza e la contraddittorietà della vita divengono un valore ulteriore su cui meditare, piuttosto che un inconveniente a causa del quale affliggersi.
John Keats non è un poeta facile, nessun poeta lo è, ma le sue poesie creano, ad ogni lettura, qualcosa che non muore. Molte restano nella nostra memoria per la grazia dei ritmi e la chiarezza delle immagini. Come si espresse in un verso celebre e perfetto, A thing of beauty is a joy forever, Una gioa eterna è una cosa bella.
(La tomba di John Keats a Roma. L’iscrizione fu voluta dal poeta: Qui
giace uno il cui nome fu scritto sull’acqua.)