Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri
Jack Kerouac
(1922 – 1969)
Dopo avere percorso per mesi le strade d’America e avere conosciuto ed amato il sogno di infinito che esse sanno sussurrare a chi sosta per un momento ai loro lati e sente che gli occhi e il petto si riempiono della seducente malia che è insieme nostalgia delle origini e profumo di libertà e di avventura, così simile alla struggente torsione delle viscere che il primo amore, e il secondo, e tutti quelli che seguono quando sono intensi e vivi sanno provocare; dopo aver attraversato pianure e altopiani e montagne rocciose e deserti e città città città fino a che la sua carne ne fosse imbevuta e saturata; dopo avere incontrato i personaggi che solo la vita errabonda ci permette di incontrare, perché la strada toglie le incrostazioni e le maschere che la vita in società produce e perpetua; Jack Kerouac si sedette davanti alla sua macchina da scrivere e iniziò a batterne i tasti senza interruzione, svolgendo sul rullo un rotolo di carta appositamente preparato, lungo più di trenta metri, così che non perdesse tempo a cambiare i fogli, e raccontò la sua avventura di gioia e indipendenza e frenesia e delusioni, anche, e incomprensioni e sogni, in righe compatte e continue, senza “a capo,” un flusso magico di inchiostro sorretto dal ritmo nuovo e vivo della sua prosa nuova e sorprendente, ma a lungo meditata e provata e riprovata nelle sue solitarie ore d’artista.
Nacque così On the Road (Sulla Strada nel nostro idioma), che divenne, dopo la pubblicazione nel 1957, il libro di culto, il compagno di viaggio, il testo della ispirazione per chiunque fosse alla ricerca di un significato nuovo da dare alla propria fragile avventura sulla terra, di una parola vera anche se disordinata e ingenuamente eccessiva. Già dalle prime pagine si respira un’aria inconfondibile che si riassapora ad ogni apertura del libro: ne riproduco l’aroma nel brano seguente, in cui Kerouac evoca Ismaele, il personaggio-narratore del grande romanzo americano Moby-Dick, quasi ad invocare il suo autore, Herman Melville, come nume fraterno e tutelare della sua opera:
Così lasciando il mio voluminoso manoscritto incompleto sulla mia scrivania, e ripiegando le candide lenzuola del letto per l’ultima volta una mattina, partii con il mio zaino in cui avevo messo solo le cose più necessarie, lasciai un biglietto per mia madre che era al lavoro, e mossi i primi passi verso l’Oceano Pacifico come un vero Ismaele con cinquanta dollari in tasca.
Il romanzo-confessione-poema della strada ha un ritmo veloce, perché la strada è veloce, come quando capita ai protagonisti di percorrere la distanza tra Denver e Chicago, circa 1.500 chilometri, in poco più venti ore, incluse le soste e le deviazioni impreviste: al volante un uomo solo, ribollente di energia e di parole, Neal Cassidy, che divenne in seguito figura di proporzioni oltre-umane, simbolo e mito di quegli anni e di quegli entusiasmi.
Il libro non fu pubblicato fino al 1957, a causa della novità e talvolta della scabrosità del contenuto, dello stile inaudito e scoppiettante, vera mimesi dei rettilinei e delle curve e degli imprevisti della strada. Kerouac usò i nomi reali dei suoi compagni di viaggio: solo dopo una profonda revisione editoriale, che mascherò nomi e luoghi e semplificò lo stile, il romanzo fu immesso sul mercato. Portò a Kerouac fama e ricchezza, nonostante il fatto che il pesante intervento redazionale ne avesse snaturato e impoverito la voce. Jack ne fu addolorato, gli risultò impossibile riconoscere nel libro a stampa il suo lavoro ma acconsentì pur di vedersi pubblicato, dopo sette lunghi tormentati anni dalla prima stesura. Si ha una prova della differenza qualitativa tra l’edizione del 1957 e il manoscritto originale confrontandoli, ora che è stata finalmente pubblicata, dopo cinquanta anni da quella prima edizione, la versione del 1951, bellissima viva vera unica. Quest’ultima è arte, quella ne è un’eco in carta forse patinata.
Jack Kerouac, il sensibile delicato nervoso inventore di una prosa spumeggiante e duttile, che lui steso battezzò come “spontanea”, si inabissò nell’incubo dell’alcool, che gli devastò la mente e il corpo. Il suo romanzo Big Sur, ambientato sulla costa californiana in cui si era recato per cercare di riprendere in mano la vita che gli sfuggiva, per vivere qualche tempo in rigenerante solitudine nella capanna che l’amico editore poeta Lawrence Ferlinghetti gli aveva prestato, registra le impietose tappe della sua lacerante autodistruzione. Giorni e notti che sfumano e si perdono nei disperati vapori liquorosi sempre più densi, ossessioni e manie che afferrano e graffiano come unghie di acciaio, intenti frustrati, scene pietose, tutto raccontato in una prosa ancora sicura e musicale, pur se immensamente triste, fiduciosa abbastanza per sentirsi in grado di ricreare, nella coda in versi del libro, la voce dell’oceano a Big Sur.
Hai conosciuto la sconfitta, ma c’è posto anche per te, Ti Jean, tra queste voci dei maestri: rivelasti valori e atmosfere dolcissime e seducenti al mio primo affacciarmi oltre le mura di casa. Avvertii un’onda fraterna e calda che si sprigionava dalla tue pagine e mi arricchiva il sangue. Ancora la riconosco e ne proteggo l’aroma, nei momenti in cui mi capita di sostare al bordo di una autostrada o nel traffico di una metropoli del Vecchio o del Nuovo Mondo. Allora il mio pensiero d’improvviso si volge a Jack Kerouac, alla sua evocazione del sole che tramonta sulle pianure dell’Iowa o sulle brume del New Jersey, alla grande notte che si stende sui vasti spazi d’America e che gli dettò brani di ispirata musicalissima prosa, alle domande che fece e alle risposte che non trovò, penso a Jack Kerouac perplesso in Times Square, incerto se chinarsi per raccogliere un torso di sigaretta ancora fumante, dopo tanto girovagare per tutti punti della rosa dei venti, penso a Jack Kerouac concentrato a cogliere l’essenza dei momenti della vita (come in queste due brevi poesie in forma di haiku: Chiara notte di luna / rovinata / da liti in famiglia; In questa sera di luglio / una grassa rana / sulla mia soglia), penso a Jack Kerouac.
Due stagioni dello scrittore