J. R. R. Tolkien

Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri

J.R.R. Tolkien

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(1892-1973)

John Ronald Reuel Tolkien nacque a Bloemfontein, in Sudafrica, ma fu condotto dalla famiglia in Inghilterra all’età di quattro anni e fu colà educato. Ottenne il primo livello di laurea (B. A.) ad Oxford nel 1913; completò la sua carriera universitaria, conseguendo il Master of Arts nel 1919, sempre ad Oxford, dopo avere prestato il doveroso servizio nell’esercito durante gli anni della prima guerra mondiale. Fu docente dell’università di Oxford dal 1925 al 1959, prima insegnando lingua e letteratura anglosassone, poi lingua e letteratura inglese. Pubblicò i lavori scientifici che sono usuali per ogni accademico, nel suo caso, traduzioni di antichi testi e saggi critici e interpretativi. Il suo impatto sul mondo, però, è dovuto ai suoi libri di fantasia, non di erudizione. A J. R.R. Tolkien si devono The Hobbit (1937) e la trilogia dal titolo The Lord of the Rings, uscita tra il 1954 e il 1955 in tre tomi ponderosi: The Fellowship of the Ring, The Two Towers e The Return of the King.

Se il desiderio di ascoltare una storia, o tante storie, o la Storia, è la caratteristica ineludibile del bipede che suole essere chiamato umano, i libri di Tolkien non solo la soddisfano, la ricreano ogni volta che un capitolo della saga giunge alla sua fine: chi ha appena ascoltato le avventure di Bilbo o di Frodo Baggins, o di Thorin Oakenshield (Scudodiquercia), o di Strider (Granpasso), di Beorn, l’uomo-orso, vuole sentirla ancora, desidera che l’incanto che la parola ha suscitato nel suo animo, la magia da cui è stato avvolto, si ripeta senza fine. Le storie di J.R.R. Tolkien, come quelle di Omero che cantò di Achille, di Odisseo, e degli eroi che hanno accompagnato il cammino dell’umanità nel corso dei secoli, non conoscono un punto finale che non sia, allo stesso tempo, anche un nuovo punto di partenza. E’ il meccanismo narrativo che regge il monumento letterario delle Mille e una notte, la meravigliosa raccolta nella quale la soluzione di un racconto è il pretesto per l’inizio di quello successivo. Quando Shahrazàd smise la prima narrazione consentitale dal sultano, al sopraggiungere del mattino,la sorella le disse: “- Quant’è bello, piacevole e dolce il tuo narrare! Al che rispose Shahrazàd: – Questo è ben poco rispetto a quello che vi racconterò la notte prossima, se sarò in vita e se il re mi ci farà restare.” Ha così inizio la serie delle mille e una notte, durante le quali il sultano dimentica la sua ira contro le donne, impara ad amare la dolcissima potenza del raccontare, e invece di dare la morte riceve in dono una nuova vita. Anche la mitologia indiana conosce la magia delle storie circolari, chiamate pāriplava; ci ricorda Roberto Calasso nel suo libro dal titolo Ka, che “erano storie degli antichi re, storie esemplari che il nuovo re-sacrificante avrebbe rinnovato. Erano storie cicliche, che continuamente ricominciavano, per un anno intero.”

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Le storie di Tolkien piacciono ai bimbi, che plasmano nelle loro menti vergini i vari personaggi di cui ascoltano le peripezie e i luoghi in cui si svolgono, prendendo parte alle avventure che si susseguono incalzanti, imparando a conoscere il brivido dell’attesa ansiosa, la paura dell’incognito, il sollievo della risoluzione di tante situazioni pericolose. La mente adulta apprezza la fertile leggerezza dell’immaginazione narrativa, la precisione architettonica dell’intreccio, il rivelarsi di un mondo parallelo, convincente e malioso, rispetto a quello conosciuto e frequentato giorno dopo giorno. Sia i giovani che i meno giovani sono chiamati a riflettere, ognuno a proprio modo, sulla condizione che è più antica della storia, cioè il conflitto essenziale e inevitabile tra le forze del Bene e quelle del Male. L’obiezione che una fiaba non sia altro che una forma di fuga dalla realtà, viene così refutata sul nascere, perché uscire dalla prigione della ripetitività e di ciò che è artificiale (quale è, purtroppo, la vita in pubblico, caratterizzata da tante infrangibili catene,che somigliano a quelle che immobilizzano gli uomini seduti nella mitica caverna di Platone), non è una diserzione ma una educazione, degna di chi di sé vuole fare campo di conoscenza.

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The Hobbit inizia con una frase memorabile: “In a hole in the ground there lived a hobbit” (“In una cavità nel terreno viveva uno hobbit”). Subito l’autore spiega al curioso lettore cosa sono gli hobbit: creature di bassa statura, circa la metà degli umani, più minuti dei nani, silenziosi e precisi in ogni loro abitudine, con la tendenza alla rotondità intorno ai fianchi; i loro piedi hanno la pianta dura come il cuoio e sono coperti di un vello spesso come quello che hanno in testa; sono amanti della quiete e dell’ordine. Nessuno si aspetterebbe di trovarli coinvolti in un’impresa lunga e traboccante di ostacoli e di sorprese, eppure l’eroe (controvoglia) di questo racconto, Bilbo Baggins, si incammina sulla strada che conduce nelle terre selvagge in compagnia di tredici nani, guidati dal loro re Thorin Oakenshield, e del mago Gandalf, tutti diretti verso la lontana e minacciosa Montagna Solitaria, nel cui centro vive da anni Smaug il Terribile, il drago che ha distrutto l’antico regno dei nani e ha preso possesso del favoloso tesoro che essi avevano accumulato. Prima di giungere fino a quel monte inquietante, però,i nostri viandanti devono superare situazioni di crescente difficoltà, talune addirittura disperate: agguati di Uomini Neri, di Orchi, di Lupi Selvaggi, di giganteschi ragni, cercando allo stesso tempo di rendersi amici personaggi potenzialmente pericolosi come l’affascinante Beorn, il Mutatore di pelle, o gli elfi dei boschi, o le grandi aquile. Tra i protagonisti di più felice invenzione è Gollum, la creatura a metà tra la natura umana, caratterizzata da infernale malizia, e quella fredda dei rettili. Gollum appartiene alle forze del Male, ma ispira nel lettore, o nell’ascoltatore, un interesse venato di simpatia. Da anni riversa tutto il suo geloso affetto su un anello magico che costituisce il suo unico tesoro: parla con il gioiello, lo apostrofa come “my precious”, non potrebbe concepire la vita senza quel talismano. Accade però che, strisciando al buio verso il fondo della montagna, Bilbo, dopo essere sfuggito agli Orchi e prima di giungere al lago al centro del quale è l’isolotto dove abita Gollum, lo rinvenga mentre tasta il terreno e se lo metta distrattamente in tasca. Al termine della gara di indovinelli con Gollum, la cui posta è la vita, Bilbo, essendo il suo turno di porre il proprio quesito, ormai a corto di idee, mette la mano in tasca e si chiede a mezza voce, “Cosa ho in tasca?” Questa semplice domanda, apparentemente innocente, apre una nuova via al racconto, così ricca di conseguenze che questo momento è il lontano inizio della futura trilogia dell’Anello, sopra ricordata.

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Se le pagine di Tolkien riaccendono, per gli adulti, l’incanto che fu tipico della prima età,quando lo stupore infantile era il motore delle scoperte e della comprensione del mondo, per i più giovani rappresentano l’apertura alla vita fuori del nucleo protettivo familiare, primo passo del percorso esistenziale che si sporge oltre il confine originario.

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