Giovanni Boccaccio

Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri

Giovanni Boccaccio

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(1313 – 1375)

La quarta giornata del Decameron, uno dei capolavori della narrativa europea di tutti i tempi, si apre in modo imprevisto e toccante. Ancora nelle orecchie del lettore echeggiano

le note dell’ultima novella della terza giornata, in cui l’impareggiabile Dioneo ha allietato l’eletta brigata formata dalle sette gentildonne e dai tre giovani che da Firenze e dalla sua pestilenza hanno preso rifugio in campagna: vi si narravano le avventure ingenue e salaci della fanciulla Alibech, che, in cerca di Dio tra gli eremiti della Tebaide, apprende, invero, dal monaco Rustico come si metta il diavolo in inferno, giacendo con lui sul suo letto: “mille fiate o più aveva la novella di Dioneo a rider mosse l’oneste donne, tali e sì fatte lor parevan le sue parole.”

La quarta giornata, sotto il reggimento di Filostrato, il “ferito d’amore,” sarà dedicata, per introdurre varietà di temi e di figure, agli amori che ebbero infelice fine. Ma prima di narrare per bocca di Fiammetta, le amare vicende del principe Tancredi, della di lui figlia Ghismunda e del giovane valente valletto Guiscardo, udiamo, un poco sorpresi, la voce stessa di Giovanni Boccaccio. Ser Giovanni si avanza fin sulla soglia della sua casa di Certaldo e ci fa accomodare nel suo studio interrompendo per qualche momento il suo lavoro, e ci parla di sé e della sua opera e dell’accoglienza di cui essa è oggetto proprio al tempo in cui, durante la composizione, già circola, in copie trascritte e ritrascritte, nelle belle dimore della ricca borghesia del tempo, desiderosa di vedersi rappresentata, ed eccitata e turbata insieme dalla possibilità di essere eternata dall’arte dello scrittore. Noi ascoltiamo, quasi increduli di tanto onore.

boccaccio casa

(Casa di Giovanni Boccaccio a Certaldo)

Boccaccio si rivolge alle “carissime donne” per cui sta creando l’opera e rivela, accorato ma virile, di essere stato accusato di usare male il suo tempo perché troppo si diletta di compiacerle, di stare in loro compagnia creando il mondo nelle sue novelle. Pur essendosi ingegnato di usare la lingua volgare e uno stile “umilissimo e rimesso,” rifuggendo gli onori delle corti, lo scrittore si ritrova “dai morsi della ‘nvidia a esser lacerato.” La sua fatica, prosegue l’autore, gli è valsa critiche di improprietà, di insipienza, di oziosità, addirittura di mendacità. Anche l’autore del Decameron ha purtroppo incontrato l’invidia, bollata da Dante nelle parole attribuite a Pier della Vigna, come

la meretrice che mai dall’ospizio

di Cesare non torse gli occhi putti,

morte comune, delle corti vizio.”

Dice dunque Giovanni Boccaccio:

Sono dunque, discrete donne, stati alcuni che, queste novellette leggendo, hanno detto che voi mi piacete troppo e che onesta cosa non è che io tanto diletto prenda di piacervi e di consolarvi e, alcuni han detto peggio, di commendarvi, come io fo. Altri, più maturamente mostrando di voler dire, hanno detto che alla mia età non sta bene l’andare omai dietro a queste cose, cioè a ragionar di donne o a compiacer loro. E molti, molto teneri della mia fama mostrandosi, dicono che io farei più saviamente a starmi con le Muse in Parnaso che con queste ciance mescolarmi tra voi. E son di quegli ancora che, più dispettosamente che saviamente parlando, hanno detto che io farei più discretamente a pensare donde io dovessi aver del pane che dietro a queste frasche andarmi pascendo di vento. E certi altri in altra guisa essere state le cose da me raccontatevi che come io le vi porgo s’ingegnano in detrimento della mia fatica di dimostrare.

Sentendo di dover rispondere ad accuse e calunnie, Boccaccio racconta un inizio di novella che dimostri, seppur incompleta, come la forza dell’amore, cioè della vita, sia assai più rilevante e forte e vera che gli speciosi aridi cavilli dei suoi detrattori, e che per questo egli, artista compiuto, non cesserà dalla sua fatica, giunta quasi ad un terzo del suo percorso, ma porterà a termine la sua missione intesa ad allietare ad educare a diffondere i valori che l’umanesimo di lì a poco coltiverà con l’anelito della rinascita spirituale.

Boccaccio si riconosce sodale e degno dei suoi illustri predecessori Guido Cavalcanti e Dante Alighieri e messer Cino da Pistoia, che nomina espressamente, i quali tutti cantarono l’amore e lo celebrarono con convinzione perché è la forza che sa fare salire l’uomo alle stelle.

Senza citarlo, Boccaccio, letterato finissimo, avrà forse avuto presente anche i versi di Lucrezio, il massimo poeta della latinità, che aprì il suo poema De rerum natura celebrando la potenza e le meraviglie di Venere, la dea dell’amore,

Aeneadum genetrix, hominum divumque voluptas,

Madre degli Eneadi, gioia degli dèi e degli uomini,

con quello che splendidamente segue.

L’insuperato narratore di Certaldo ci offre una lezione di integrità e di determinata consapevole dedizione. E’ alta virtù, è sommamente morale, proseguire nella propria strada senza piegarsi al conformismo della mediocrità, serenamente fiduciosi della forza e della giustezza della propria vocazione. Quello di Giovanni Boccaccio è un dono di non secondario pregio, non solo in tempi di dissonante confuso strepito come sono quelli che ci sono toccati in sorte.

decameron

Iluustrazione per il Decameron

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