Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri
Giacomo Leopardi, III
(Il Conte, il Pastore, l’Asia)
Tra i Canti del Conte Giacomo Leopardi che con più costanza e con più dolcezza mi tornano alla mente e mi fanno più ricche e più intense le ore è il Canto Notturno di un Pastore Errante dell’Asia, composto in Recanati tra l’ottobre del 1828 e l’aprile del 1830. La magia verbale e musicale di questa poesia sa fare risuonare di note belle e care il denso grumo concettuale che potrebbe invitare, di per sé, alla cupa melanconia. Il fascino si sprigiona non appena si ripete, a mezza voce, il titolo, che sfrutta appieno e magistralmente le maliose attrazioni del vago, così amato da Leopardi: viene evocata, infatti, l’arcana atmosfera della notte che si allarga senza stemperarsi, come padrona assoluta e indifferente, sullo smisurato spazio di una steppa di sogno, fino ai confini del mondo, ed anche oltre, nei reami d’incanto in cui le frontiere sono labili come ricami di vapore e i profumi e le aure divengono conturbanti come nelle storie che la paziente Shahrazàd, dal sottile ingegno, crea nelle sue Mille e Una Notte, riuscendo così a vincere la sorda furia omicida del re dei Sassanidi Shahriyàr.
In quelle distese sterminate, in quella quiete profondissima, in quei sovrumani silenzi che il giovane poeta aveva già finto, cioè formato dentro di sé con l’amorevole cura che il vasaio impiega per modellare l’anfora d’argilla sul suo tornio, nell’idillio intitolato L’Infinito, un pastore dalle nomadi abitudini, semplice di vita e tenacissimo di pensiero, alza lo sguardo alla bianca silenziosa luna, e in una serie di incalzanti, bellissimi settenari ed endecasillabi disposti in strofe diseguali perché mimano l’urgenza del pensiero, ma legate dalla ripetuta rima in -ale che tutte le chiude, la interroga sul significato di questa vita, sul senso di questo inarrestabile venire alla luce ed errare e soffrire e scomparire. Il pastore sa che non può aspettarsi alcuna risposta, ma l’atto stesso della domanda stabilisce un fecondo rapporto tra la sperduta voce umana e il sovrastante pianeta dalla fredda luce virginea, e in questa comunione è già una forma di sollievo: potere condividere un’emozione, sia pure un dolore od un tormentoso dubbio, con una presenza superiore, è già conforto per l’anima affannata e ristoro per il corpo affaticato, meno cupa appare poi la condizione esistenziale.
Le domande del pastore paiono sgorgare l’una dall’altra, in corsa come l’acqua che salta dai sassi di una sorgente, e coprono l’intera gamma dei quesiti essenziali. La loro rilevanza filosofica bene si adatta allo spazio immenso, che si veste di sacro, in cui risuonano senza produrre stonature:
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? dimmi ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?
E più oltre:
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle? [luci del cielo, stelle]
Che fa l’aria infinita? e quel profondo
Infinito seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
L’ansia sincera, ed infine chiara a se stessa e scevra di turbamento, è sottolineata dagli enjambements che ritmano le strofe, facendoci sentire il vigore del pensiero che forza la regolarità del metro facendo scivolare il verso in quello successivo, proprio come fa l’acqua della sorgente sopra menzionata saltando di roccia in roccia. Il pastore, si è detto, non attende risposte. Neppure il lettore. Le domande, invero, sono l’inizio e la fine dell’atteggiamento speculativo della mente adulta, che sa contemplare l’abisso tenebroso senza spaurirsi e senza negarlo, senza pretendere, neppure, rassicurazioni e conforti a tutti i costi. Le migliori risposte, si giunge ad intendere, sono i silenzi in cui vibra senza spegnersi l’eco delle domande, onesta e chiara immagine della nostra natura, votata sempre alla ricerca. Tali domande, alle quali non conviene la risposta, sono anche nella celeberrima poesia di William Blake intitolata The Tyger, già ricordata in questa rubrica: anche in quei versi il poeta chiede alle foreste della notte perché il male sta nel mondo accanto al bene. Tali domande sono e saranno le nostre, ostinate fino alla fine.
Riflettere su questi temi urgenti ed elusivi è ben degna e nobile occupazione. Intelligenza misera e torpida è quella che li tiene in non cale. Il Canto Notturno di un Pastore Errante dell’Asia confronta poi lo stato infelice e inquieto della vita umana con la condizione felice (ma la voce poetica aggiunge a questo punto un cauto credo) degli animali, che non sono assaliti dalle cure e dai travagli e subito scordano ogni estremo timor. La sconsolante conclusione è che
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna, [culla]
E’ funesto a chi nasce il dì natale.
Questo congedo sembra lasciarci soli e abbandonati alla disperazione, per quanto muta, come fossimo accasciato sotto la grave cappa del solido nulla che ci circonda e ci inghiottirà. Ma qui accade il miracolo che l’arte sa produrre: proprio quando la poesia evoca la più miserevole condizione, ecco che, allo stesso tempo, regala la forza di contemplarla e di viverla e di trasfigurarla. Nell’istante in cui il poeta ti mostra l’inesorabile legge del nostro divenire nulla, tu senti il calore della vita, e a quella fiamma si scioglie il gelo del cuore. E’ il paradosso salvifico su cui Leopardi aveva già teorizzato in una pagina dello Zibaldone dell’ottobre 1820, che qui riporto perché meglio non si può descrivere il valore delle Voci dei Maestri:
Hanno questo di proprio le opere di genio, che quando anche rappresentino al vivo la nullità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire l’inevitabile infelicità della vita, quando anche esprimano le più terribili disperazioni, tuttavia ad un’anima grande che si trovi anche in uno stato di estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia e scoraggiamento della vita, o nelle più acerbe e mortifere disgrazie (sia che appartengano alle alte e forti passioni, sia a qualunque altra cosa); servono sempre di consolazione, raccendono l’entusiasmo, e non trattando né rappresentando altro che la morte, le rendono, almeno momentaneamente, quella vita che aveva perduta.