Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri
Erich Auerbach
(1892 – 1957)
Ricordava Italo Calvino, recensendo nel 1969 Anatomy of Criticism del critico letterario canadese Northrop Frye, che “ognuno scava da ogni libro il libro che gli serve, soprattutto quando è un libro ricco e complesso come questo.” Quando mi vennero sotto gli occhi queste poche, dense parole, mi si fece d’improvviso chiaro ciò che mi era capitato alcuni anni addietro allorché studiavo i due volumi di Mimesis, il realismo nella letteratura occidentale, del grande filologo tedesco Erich Auerbach. Avevo iniziato la lettura mosso, credo, dalle arcane affinità elettive che ci portano nei luoghi ove spirano aure che ci nutrono, o incontro alle personalità la cui voce ci parla, anche se dal lontano passato, con il timbro della vicinanza familiare. Alla pagina 282 del primo volume (nella bella traduzione italiana edita da Einaudi) ebbi la conferma che questo libro sarebbe stato fondamentale per me. Scrive Auerbach nel capitolo dedicato al commovente racconto (per mano del cavaliere e funzionario di corte e narratore Antonio de la Sale che operò tra il 1390 e il 1461), dell’angoscioso travaglio, e del coraggio nell’accettarlo e sopportarlo, di Madame du Chastel, al tempo che il Principe Nero assediava la fortezza di Brest: “Occorre una disposizione, un’attiva volontà di dare al mondo una forma, perché la capacità d’intendere e di riprodurre i fenomeni della vita possa acquistare la forza di superare lo strettissimo campo della propria esistenza.”
La cadenza misurata e sicura di questa intuizione operò nella mente di chi scrive con la stessa efficacia e chiarezza intellettuale di tanti passi dei poeti la cui opera ha superato i confini del loro tempo, perché con la magia verbale che era il loro dono divino, seppero cantare l’essenza pura ed inesauribile delle cose al di sotto delle tante immagini che colpirono la loro fantasia: versi e versi di tanti poemi sono così divenuti presenze inseparabili dalla nostra memoria, e sanno rendere molto più intense le nostre risposte allo spettacolo del mondo, più vivi i nostri ricordi, più vere le nostre speranze. La poesia, insomma, secondo un fortunato verso del poeta settecentesco inglese Alexander Pope, dice What oft was thought, but ne’er so well express’d (“ciò che spesso fu pensato, ma non mai così bene espresso”).
Quanto finora considerato, ci porta infine a comprendere con definitiva chiarezza ciò che distanzia l’artista dall’uomo ordinario: non si tratta ovviamente di cruda differenza di valore, perché entrambi partecipano della condizione umana, e della sua inestirpabile dignità; piuttosto è questione di delicatezza e complessità di sentire, che è frutto sia di talento (naturale), che di disciplina (acquisita e fortemente voluta). Per accedere alle più alte vette della comprensione occorre che lo spirito sia a lungo affinato. Anche l’uomo ordinario dà ordine alla propria vita cercando di aggiustarne al meglio i rapporti con lo spazio e con il tempo, sforzandosi di intendere il senso che gli eventi fanno balenare davanti agli occhi e che con facilità pare perdersi in una lontananza nebbiosa. La comprensione è, però, sempre in qualche modo distorta dalle linee prospettiche che deformano contorni e masse restringendoli al punto di vista dell’esistenza singola: tutto ciò che accade pare non svolgersi altrimenti che davanti ad uno sguardo in disparte e modesto, la ineluttabile posizione individuale: così gli eventi perdono la loro valenza universale, si conformano alla piccolezza dell’osservatore, si immiseriscono.
Solo l’artista sa respirare a pieni polmoni, come se sempre reagisse allo spettacolo della vita da un’altura ove l’aria è frizzante e pura, e alla vista si offre un vasto panorama: l’impulso formale che è all’opera al suo interno, e gli detta le risposte creative adeguate, lo ha liberato dalle pastoie della persona.
A questa intuizione di Erich Auerbach è opportuno ricorrere quando ci prepariamo al contatto con qualunque personalità artistica, onde non cadere nell’errore di usufruire di un’opera di pittura o di scultura o di musica o di letteratura come fossero altrettanti momenti di distratta relazione mondana: ogni segno, anche di interpunzione, di una poesia, è portatore di novità di significato, ogni nota di uno spartito, ogni colpo di pennello sulla tela o di scalpello sul marmo veicolano una precisione espressiva che non è dato rinvenire altrove. Altrimenti si smarrisce la precisione degli intenti, e della visione, che dettò, per esempio, al poeta americano Charles Olson, i seguenti, indimenticabili, quasi inquietanti, versi: O love who places all where each is, as they are, for every moment, yield / to this man / that the impossible distance / be healed (O amore che metti ogni cosa al suo posto, sempre, costantemente, concedi / a quest’uomo, / che l’impossibile distanza / sia risanata).
In quelle righe di Auerbach risuona ciò che il poeta americano T. S. Eliot scrisse a proposito della importanza della tradizione: chiunque voglia essere artista deve sentire la presenza del tempo come flusso sovra-personale, la possibilità inaudita della compresenza di passato e presente e futuro, l’unica modalità per cui l’espressione particolare può diventare eterna. Grazie ad essa si conquista uno stato dell’essere che assomma in sé, e trascende, le tante forze creative ed espressive individuali. L’artista si trasumana, meno interessato alla propria particolarità storica e sociale che alla sua esilarante possibilità creativa, mentre plasma un materiale che, portato alla luce dall’intimo della sua natura, splende della stessa ricchezza dei colori e dei profumi che sono fuori di lui, e di fronte a noi, e conosciuti dagli uomini di tutti i tempi: sono i canti degli uomini e delle donne e delle fiere e degli uccelli e dei pesci e delle piante e delle pietre. Sono le risa e il pianto e la lotta e l’abbraccio. Palpitano, sussultano, riposano.
Il ricco, e arduo, libro Mimesis, il realismo nella letteratura occidentale è una lunga, splendida meditazione di quell’intuizione geniale. Auerbach accompagna il lettore, grazie alla sua straordinaria competenza e determinazione, per le magiche strade della civiltà europea, che percorre scegliendo quelli che al suo gusto educato sono i testi più importanti e rivelatori. Sotto la guida del Maestro ci inoltriamo per i luoghi ove vive Omero, imparando ad apprezzare la gioia dei sensi che nei suoi poemi impera, così diversa dal tono austero delle storie della Sacra Scrittura, che non intendono allietare e incantare, ma preparare alla terribile rivelazione del divino. Veniamo presentati a Petronio, ad Ammiano Marcellino, a Gregorio di Tours. Ascoltiamo incantati la Chanson de Roland, Chrétien de Troyes, Dante, Boccaccio, Rabelais, Cervantes, Shakespeare, Schiller, il sommo Stendhal, i fratelli Edmond e Jules de Goncourt, Virginia Woolf. Marcel Proust.
Un viaggio bellissimo, al termine del quale tutto è più bello e più ricco, perché anche noi, nutriti delle suggestioni che emanano da queste pagine, abbiamo imparato a superare, almeno per quelle ore, lo stretto campo della nostra esistenza, e abbiamo assaporato l’ebbrezza della libertà che all’uomo si dà solo come compiuta espressione artistica.
(Una curiosa espressione)