Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri
Emily Brontë
(1818 -1848)
Da quanto poteva trasparire al di fuori della sua persona, la vita di Emily Brontë non sembrò segnata da gioie particolari e da calore di affetti: riservata fino all’ostinato ritrarsi dal mondo, forte della propria unicità, si sentiva resistente come i coriacei arbusti che sapevano affrontare la violenza dei venti che infuriavano sulla brughiera dove lei visse. Con silenziosa dedizione offrì le sue infaticabili cure al fratello Branwell, alcoolizzato e ammalato di tubercolosi, per alleviare un poco il peso della sua agonia. Anche lei contrasse lo stesso morbo, ma non volle che fosse chiamato un medico; l’ultimo mattino della sua vita terrena, si alzò come di consueto e, tossendo, iniziò ad occuparsi delle faccende quotidiane. Quando il male fu più forte del suo corpo ormai indebolito, si distese e lasciò che la morte portasse a termine il suo compito. Se un mondo a noi ignoto si apre oltre la gravezza delle cose fisiche, Emily Brontë vi entrò con gli occhi aperti.
La sorella Charlotte, autrice del famoso romanzo Jane Eyre, scrisse che Emily fu “più forte che un uomo, più semplice che un bimbo,” ma che la sua volontà non era flessibile ed “era generalmente in contrasto con il suo interesse.” La poesia Il vecchio stoico termina con il seguente distico che bene pare descrivere la personalità austera di Emily: in vita e in morte, un’anima senza catene / con il coraggio di resistere!
Quello che questa persona chiusa e poco affabile racchiuse in sé, fu raramente concesso in sorte ad altra creatura umana con pari intensità e profondità di sentire e con paragonabile talento espressivo. Il mondo dei rapporti fisici e sociali era spettacolo di miseria ai suoi occhi; erano i sentieri della immaginazione creatrice quelli sui quali sapeva muoversi e respirare, e di cui sapeva parlare come nessun altro. Da quegli spazi solitari, selvaggi, inesplorati, sorsero in lei i personaggi le atmosfere le vicende del suo capolavoro, il romanzo Wuthering Heights, in italiano, Cime tempestose.
Il libro è un trionfo compositivo in cui si compie la vocazione artistica di Emily: la tecnica narrativa è sapientemente sviluppata intorno a due narratori, il primo dei quali, Mr. Lockwood, introduce una storia nella quale incappa, sprovveduto e curioso, quando è ormai quasi conclusa, e serve, strutturalmente, per dare il via alla seconda voce narrante, quella della governante Nelly, che ha avuto esperienza diretta di quegli eccezionali intrecci di passioni e di violenze. La frizzante parlata di Nelly fa risorgere dalle oscure aure del passato la figura di un uomo che torna, stanco, da un lungo viaggio a piedi, portando in spalla un sorprendente dono dalle strade della città di Liverpool. E’ un trovatello dallo sguardo sofferente e sperduto, il suo nome è Heathcliff. E’ la presenza intorno alla quale, d’ora in poi, ruoteranno le fortune e le sfortune di Wuthering Heights, il nome della casa esposta alle intemperie dove vive la famiglia Earnshaw, che ha accolto, chi con astio chi con curioso affetto, il fanciullo.
Se la misura e il decoro sono le virtù che la società vittoriana pregiava e cercava di inculcare in ogni membro rispettabile dell’ordine costituito, Heathcliff non solo non le conosce, le rifiuta e le disprezza, naturalmente. Eccessivo, violento, spietato, disumanamente sincero e coraggioso, conosce una sola ragione di vita: dare compimento all’amore invincibile e divorante che lo spinge verso Catherine Earnshaw, la ragazza capricciosa e sfrenata con cui cresce e gioca a Wuthering Heights, ma che non potrà sposare. Come uno degli eroi usciti dalla penna di lord Byron, Heathcliff entra ed esce e rientra in scena avvolto dalla malia del mistero, sostenuto dalla passione dominante che nessuna forza può ostacolare. Memorabili e inaudite sono alcune sue osservazioni che rivelano una natura feroce ma consapevole, che rifiuta di chiudere gli occhi davanti agli abissi dell’orrore:
Io non ho pietà! Io non ho pietà! Più il verme si contorce, più ardo dal desiderio di schiacciargli le viscere! E’ una tortura morale atroce come quella della dentizione; e schiaccio con tanta più energia, quanto più cresce il dolore.
Sembrerebbe che nessun guadagno intellettuale potrebbe il lettore ricavare da siffatto personaggio. Eppure Heathcliff insegna il valore della dedizione senza riserve: sorretto da una fede assoluta, Heathcliff sopporta il tormento del desiderio di Catherine in ogni singolo minuto della sua vita, dopo la morte di lei, perché vuole che l’unione infine abbia luogo; se non in queste forme di carne, ebbene in forma di ombra per le lande dove vagherà una volta svestito il peso delle membra. Allora la brama di infinita comunione non conoscerà limiti. Nel suo modo personalissimo e potente Emily Brontë ha dato una nuova forma all’antichissimo mito narrato da Aristofane nel Simposio di Platone, nel corso della discussione sulla natura dell’amore. All’inizio gli uomini, racconta l’Aristofane platonico, erano esseri perfetti e sferici, ma perché non insuperbissero nella propria beatitudine, Giove stabilì di dividerli: da allora una metà cerca l’altra, con ansia e con ardore brucianti. Il desiderio di vincere l’isolamento essenziale dell’io, piaga angosciosa che tutti conoscono, acquista in Heathcliff una evidenza concettuale e plastica che non si dimentica: tutte le sue forze tendono alla meta che è considerata fuori delle possibilità umane, senza intrattenere dubbio alcuno. E’ questa inflessibilità di intenti che fa infine muovere le montagne. Heathcliff è terribile, certo, ma non non è alieno dalla grandezza.
Non solo chi si occupa, volente o nolente, di letteratura inglese, dovrebbe leggere e meditare questo romanzo straordinario. Queste pagine sono consigliate a chiunque sia interessato a gettare un poco di luce sull’enigma della natura dell’uomo e della donna, e della forza che li attira l’uno verso l’altra e li irretisce e li inganna e li abbaglia e può anche, talvolta, offrire loro la possibilità della redenzione finale.
Ralph Fiennes e Juliette Binoche nell’adattamento filmico di Wuthering Heights, diretto da Peter Kosminsky nel 1992.