Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri
Dylan Thomas
(1914 – 1953)
Nell’apprendere la morte di Dylan Marlais Thomas, avvenuta in seguito a delirium tremens presso il Saint Vincent Hospital di New York il 9 novembre 1953, il poeta americano Kenneth Rexroth – figura di punta dell’avanguardia artistica che gravitava intorno all’area di San Francisco, la città che sarebbe presto assurta agli ambigui splendori della fama internazionale in seguito alla risonanza della lettura pubblica di poesia “Six Poets at the Six Gallery del 1955, atto di nascita quasi ufficiale della beat generation – compose un doloroso epicedio dal biblico titolo Non uccidere, che evoca la spietata efficienza con cui la società organizzata pianifica l’eliminazione delle anime belle, o semplicemente ribelli, che non si conformano: “Stanno assassinando tutti i giovani. / Da mezzo secolo ormai, ogni giorno, / li stanano e li uccidono. / Li stanno uccidendo ora. / In questo momento, in tutto il mondo, / stanno uccidendo i giovani.” E John Berryman, poeta americano tra i più interessanti del Novecento, autore del bellissimo poema Omaggio a Mistress Bradstreet, così fissò in versi l’ultima immagine che ebbe dell’amico:
Cannule dappertutto, inutili contro il coma,
al terzo giorno il primario
mi disse di pregare per la sua morte, troppo il danno al cervello.
I suoi tozzi piedi sporgevano.
Rammento che, in visita a New York qualche anno addietro, sostai provando un senso di sofferta simpatia davanti alla targa che, all’ingresso del leggendario Chelsea Hotel, ricorda che da qui prese l’avvio l’ultimo volo del poeta che seppe cantare la forza che nella verde miccia spinge il fiore.
Il gallese Dylan Thomas, la voce più libera e più lirica e più esuberante della poesia inglese del secolo ventesimo, ha incarnato perfettamente l’immagine del giovane senza freni che l’apparato sociale, appena velatamente preoccupato, tiene sotto vigile controllo, talvolta permettendogli anche un non irrilevante successo di pubblico, ma che infine è costretto a consumare la sua esperienza creativa nel breve giro di pochi anni brucianti. Come accadde a Percy Bysshe Shelley, la più fulgida e dirompente forza lirica del Romanticismo inglese, la spazio temporale concesso a Dylan Thomas fu limitato: l’artista visse gli anni a lui destinati con la vibrante intensità ignota alla maggioranza dei mortali, cantò con il suo timbro esaltato ed inimitabile i temi che gli stavano a cuore, scivolò purtroppo nella trappola mortale dell’alcolismo che gli intorbidò la mente e gli distrusse il corpo. Lasciò un gruppo di poesie di scintillante fervore comunicativo.
Dylan Thomas usa il linguaggio facendo germogliare le sorprendenti associazioni che soltanto il superamento della logica usuale permette. Il poeta si muove nel campo della sensuale gioia associativa con tale maestria che i suoi versi fanno sorgere mondi nuovi, in cui la fantasia diviene esperienza concreta, tangibile, atto conoscitivo liberatorio:
In questo giorno che si sta scaricando
Alla fine dell’estate benedetta da Dio
Nel sole salmone di torrente,
Nella mia casa scossa dal mare
In un rompicollo di rocce
In un viluppo di frutti e pigolii,
Spuma, flauti, penne e pinne,
Allo zoccolo danzante d’un bosco,
Presso sabbie schiumose di stelle marine …
Poiché la società è struttura organizzata che mira alla propria conservazione nell’ordine delle parole e delle cose, la scomoda sorpresa che essa prova di fronte alla inaudita novità di un linguaggio che sgretola le sue certezze e le sue aspettative, si trasforma presto nella modalità della censura, o dell’indifferenza; talvolta farà ricorso all’esaltazione superficiale, perché nel chiasso celebrativo l’artista, cullato, si stordisca, si svuoti, e la sua musa spossata infine taccia. Le sue opere finiranno presto sui banchi di scuola, sulle cattedre universitarie, materiale ideale per le più ermetiche esercitazioni di critica accademica. Sempre meno la gente per cui l’artista scriveva, per la quale spese le risorse del suo genio, sentirà parlare di lui.
La poesia di Dylan Thomas non richiede commenti introduttivi, basta aprire un volume ed erompono esultanti le immagini della vita: la forza che spinge l’acqua tra le rocce / spinge il mio rosso sangue; la primavera stagione degli spasmi; e la morte non avrà più dominio; la grave terra allegra in riva al mare. In questi versi si sente che ci si può tuffare come tra le onde, mentre gli spruzzi ci inebriano, e si accolgono gli impeti ripetuti sulla pelle, e se ne respira l’aroma. Si conosce il fervore delle ore. Dylan Thomas, come tutti i poeti, comunica a diversi livelli, ciascuno in sé completo. Insegnava Jurij Lotman, insigne studioso di semiotica nella allora sovietica università di Tartu, in Estonia, che “avendo la possibilità di concentrare un’enorme informazione in una superficie molto ristretta, il testo artistico ha anche un’altra specialità: esso trasmette ai diversi lettori una differente informazione, a ciascuno nella misura della sua comprensione; esso dà al lettore una lingua, nella quale è possibile assimilare una successiva porzione di informazione a una seconda lettura.”
La ripetuta meraviglia che da bimbi si prova davanti allo spettacolo della vita che pare inesauribile, detta i versi di Dylan Thomas e nutre anche le sue prose, come i racconti della raccolta Ritratto dell’artista da cucciolo. In questa opera uno dei pezzi rivelatori è intitolato Una visita al nonno. Si narrano fatti che solo un bimbo sa vedere: il nonno guida una fantastica carrozza trainata da folli cavalli nel mezzo della notte, ansante nel suo letto, e urla felice “Gee-up!” e “Whoa!”, schioccando la lingua sul palato. Al nipote che accorre stupito e ansioso per sapere se ci sono problemi, il nonno risponde tranquillo che il piccolo deve avere sognato: si è mai visto un vecchio che, sveglio nella notte, sbraita e suda per tenere sotto controllo i suoi folli destrieri? E quando il bimbo è nel corridoio, la voce erompe di nuovo nella casa, “Gee-up!”, “Whoa!” In pieno giorno, poi, il vecchio si incammina verso Llangadock, dopo avere indossato il suo panciotto migliore, perché là vuole essere sepolto: il paese, in subbuglio, cerca invano di fermarlo.
Nelle pagine di Dylan Thomas splende il realismo magico che forse un tempo illuminò il mondo per ciascuno di noi, con la presenza sempre nuova della meraviglia, con la vivacità dei colori che non hanno nome, con l’assenza (perché inutile) delle spiegazioni razionali. Diviene molto bella la vita, quando esso torna a rifulgere nell’età adulta.