Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri
David Herbert Lawrence
(1885 – 1930)
Il sensibilissimo orecchio poetico di Ezra Pound salutava la comparsa dell’opera in versi di Thomas Hardy, uno dei massimi scrittori inglesi di ogni tempo, come il miracolo linguistico lungamente atteso che finalmente giustificava la serie di ponderosi romanzi che Hardy aveva pubblicato nel corso degli anni: “Ecco infine la chiarezza,” annotava il poeta americano. “Ecco il risultato di avere scritto prima tutti quei venti voluminosi romanzi.”
David Herbert Lawrence, che di Thomas Hardy sentì l’influenza non solo di stile, compose poesie per tutto il periodo della sua prodigiosa vita creativa, alternando i suoi versi alla produzione di alcuni tra i romanzi più significativi del Novecento (da Figli e amanti, 1913, a Donne innamorate, 1921, a L’amante di Lady Chatterley, 1928), di saggi (La psicanalisi e l’inconscio, 1921, Classici americani, 1923), di racconti (L’ufficiale prussiano, 1914, La donna che fuggì a cavallo, 1928), di traduzioni (notevoli quelle di diversi racconti di Giovanni Verga, tra cui La roba), di libri di viaggio (Mare e Sardegna, 1921, Mattinate in Messico, 1927, Luoghi etruschi, uscito postumo nel 1932), di quadri (nel 1929 tredici sue tele in mostra a Londra furono sequestrate dalla polizia sotto l’accusa di oscenità), di lettere (una prima scelta antologica dall’epistolario fu pubblicata nel 1932 dall’amico Aldous Huxley). Partito dalla lezione di Thomas Hardy, da cui apprese la cura per le cadenze dialettali e l’amore per le tonalità bibliche, approdò al verso cosiddetto libero, anche grazie allo studio del più grande poeta americano del XIX secolo, Walt Whitman, per cui l’arte era una cosa sola con la vita, “non simbolicamente,” come si espresse Emilio Cecchi, “ma empiricamente”. Le rivoluzionarie soluzioni prosodiche adottate da Whitman nel libro che lo accompagnò per tutta la vita, Foglie d’erba, in cui il respiro del poeta e il timbro della sua voce danno forma al verso, consentirono a Lawrence di ottenere la stessa ricchezza di toni, e quindi di temi, della sua vastissima produzione in prosa. La scrittura che, urgente e inarrestabile e copiosa, riempiva le pagine dei quaderni di “Lorenzo”, non era diversa dal suo stesso sangue che scorreva forte nelle sue vene, ricco, nutriente. La sua parola era la conseguenza della linfa naturale che sentiva pulsare in sé. Lo scrittore non pone ostacoli all’espressione delle sue visioni di bellezza, non frena la sua esuberanza di percezione, il preziosismo delle belle lettere lo infastidisce: ogni poesia nasce come un centro di forze attorno al quale le immagini si organizzano, come una calamita ispira le linee armoniose secondo le quali si dispone la limatura di ferro.
Scrivendo poesia D. H. Lawrence si immerge nelle profondità dell’umana persona con lo stesso ardore di ricerca e di parola che contraddistingue la sua prosa. Si confrontino i due passi seguenti, il primo dal romanzo Donne innamorate, il secondo dall’introduzione al volume di poesie Pansies, del 1929. Vi risuona la stessa sincerità di intenti, l’eguale brama artistica di cogliere quello che forse è eternamente elusivo:
Meglio morire piuttosto che vivere meccanicamente una vita fatta di ripetizioni di ripetizioni. Morire è muoversi verso l’invisibile. Anche morire può essere una gioia, la gioia di sottomettersi a ciò che è più grande di ciò è conosciuto; ossia, ciò che è sconosciuto. Quella è una gioia.
Ogni poesia è un pensiero; non una nuda idea o un’opinione o una dichiarazione didattica, ma un vero pensiero, che giunge dal cuore e dai genitali, oltre che dalla testa. Un pensiero, con il suo sangue di emozioni e di istinti che gli scorre dentro come il fuoco nell’opale di fuoco (fire-opal), se così mi è lecito esprimermi.
Per catturare la realtà che è prima delle parole, che costituisce il loro oscuro fondamento (una presenza-assenza che riporta alla mente certi motivi di Meister Eckhart, il mistico tedesco nato ad Hochheim, in Turingia, nel 1260), Lawrence sceglie le scene e i momenti della vita quotidiana, ma colti, o sorpresi, da angoli visuali inediti, in modo che possano comunicare impreviste possibilità di risonanze, di corrispondenze, di rivelazioni: “Le zanzare mordono questa notte / come memorie”; “Gli alberi soffrono, come le razze, lungo le età”; “Vidi confusamente / una volta un grosso luccio lanciato alla caccia, / e i pesciolini volare come schegge”; Perché Dio è oblio molto più profondo che il sonno”. Nella poesia Fichi, il frutto del fico diviene la matrice universale che unisce in un unico umido abbraccio la donna e i doni della terra:
Fico, frutto del mistero femminile, celato e volto all’interno,
frutto mediterraneo, con la tua celata nudità,
ove tutto accade non visto, fioritura e fecondazione e maturazione
nella tua più nascosta intimità, che nessun occhio potrà vedere
finché tutto è compiuto, e sei ormai pronto, e scoppi per rendere il tuo spirito.
In Serpe, il serpente che giunge all’abbeveratoio della casa del poeta a Taormina, è il re potente e sinistro del mondo sotterraneo, che richiede che la vita si arresti in sospesa riverenza mentre esso si disseta nella caldissima ora di un giorno di luglio. Per un attimo il poeta si sente onorato di ospitare il rettile uscito “dall’oscura porta della terra segreta,” abitatore delle viscere infuocate per cui l’Etna fuma. Ma la voce dell’educazione rovina l’esperienza estatica: il poeta impaurito lancia un bastone contro la serpe velenosa, che fugge scomposta, non più simbolo di bellezza e di regalità. Lawrence sente, arrossendo, il rimorso per quel gesto meschino, ha disturbato uno dei signori della vita: allo steso modo l’Antico Navicante di Samuel Taylor Coleridge aveva distrutto l’incanto dell’albatro:
Così, persi la mia occasione con uno dei signori
della vita.
E ho qualcosa da espiare;
una meschinità.
Una delle raccolte poetiche di D. H. Lawrence, come accennato sopra, si intitola Pansies, e bene comunica il ricco significato della sua produzione in versi. Immagini delicate e fresche e colorate, precise e compiute come le viole che sbocciano anche nei pressi dei muri diroccati, ed allietano la vista; e insieme pensieri, meditazioni, secondo l’etimologia francese della parola, alla maniera delle Pensées di Blaise Pascal, intuizioni artistiche sulla vita, sulla morte, sulla loro misteriosa unità.
La casetta che i coniugi David e Frieda Lawrence abitarono a Taormina per due anni e un mese, dal gennaio del 1920 al febbraio del 1922, in via Fontana vecchia (allora periferia di Taormina).