Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri
Carlo Michelstaedter
(1887 – 1910)
Alla biblioteca civica di Gorizia è il fondo Michelstaedter. Fui ospitato in una saletta appartata in cui sono conservati manoscritti e disegni di Carlo, una delle figure più affascinanti dell’inizio del XX secolo in Italia. Ricordo che, mentre sfogliavo le carte e riconoscevo nella fluida e aristocratica calligrafia i passaggi che avevo sottolineato nei libri stampati, l’occhio si posò su una pagina su cui una macchia irregolare, rosa pallido, quasi giallastra ormai, si spandeva tra le righe, oscurandone alcune. Ne chiesi ragione alla gentile bibliotecaria che mi aveva accolto. E’ sangue, mi disse, il sangue di Carlo Michelstaedter. Il giovane filosofo ventitreenne aveva premuto il grilletto della rivoltella, giunto alla fine della revisione della propria tesi di laurea, la mattina del 17 ottobre 1910. Quel foglio testimoniava del gesto impulsivo, quasi un raptus inarrestabile, precipitato forse da un subitaneo battibecco con la madre.
Il titolo della tesi è La persuasione e la rettorica, una dissertazione vertiginosa – in costante dialogo con i libri dell’Antico e del Nuovo Testamento, con i sapienti presocratici, con Platone e Aristotele – sulla vita, ovvero la persuasione. (“persuaso è chi ha in sé la sua vita: l’anima ignuda nelle isole dei beati”), e l’illusione della vita, la sua contraffazione, cioè la rettorica, “l’inadeguata affermazione d’ individualità”. Gli uomini, argomenta con voce nuova e sicura Michelstaedter, non sentono più con tutto il corpo la voce dell’essere, provano paura, si circondano di parole che alleggeriscano il dolore, ad esse si affidano per costruire qualcosa che li protegga. Fiorisce la rettorica che è un sapere nemico della vita.
La persuasione e la rettorica è un libro unico, in cui il linguaggio raggiunge a volte la straordinaria tensione espressiva che si trova, ricchissima di spunti meditativi, in alcuni luoghi di Dante Alighieri. Dice Michelstaedter: “Poi la rettorica ‘coinvortica’ come la corrente d’un fiume ingrossato, che uno non si può tener presso la sponda ma è trascinato nel mezzo.” Vengono a mente i neologismi della Divina Commedia, che sprigionano una forza simile, non esterna, ma determinata dalla connaturata nettezza, dalla terribile pregnanza, del pensiero: “de’ Serafin colui che più s’india”. Anche Shakespeare e Joyce sapevano caricare la loro lingua di tale energia.
In questo libro si parla dell’assoluto come materia pulsante, misteriosa ma sperimentabile: “L’assoluto, non l’ho mai conosciuto, ma lo conosco così come chi soffre d’insonnia conosce il sonno, come chi guarda l’oscurità conosce la luce”. Sono pochi, davvero pochi, i pensatori che sanno fare conoscere anche con i sensi l’urgenza vitale di questi concetti metafisici.
(Carlo Michelstaedter, Processione di ombre,
disegno a lapis, Biblioteca Civica, Gorizia.)
Indimenticabile è anche Il dialogo della salute, un opera che ricorda i dialoghi composti da Platone. Michelstaedter vi discute, nuovamente, i temi della vita e della morte, per bocca dei due personaggi – gli amici Nino e Rico. Il dialogo è dedicato ad Emilio, sodale di Carlo, “e a quanti giovani ancora non abbiano messo il loro Dio nella loro carriera.” L’uomo non vive pienamente perché è convinto di avere bisogno delle cose, e ogni bisogno è uno spostare nell’aspettazione futura la propria vita; gli uomini si affannano a parlare “e con la parola s’illudono d’affermare l’individualità che loro sfugge.” Nel dialogo prendono forma gli stessi temi della Persuasione, ma danzano più leggeri, nel movimento sciolto della conversazione:
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La senti la voce della società? E’ come un ronzio colossale- ma se porgi l’orecchio a seguir i singoli suoni, udirai voci d’impazienza, d’eccitamento, voci di gaudenti senza gioia, di comando senza forza, di bestemmia senza scopo. E se li guardi negli occhi, vedrai in tutti, nel lieto e nel triste, nel ricco e nel povero- lo spavento e l’ansia della bestia perseguitata. Guarda tutti come s’affrettano s’incontrano s’urtano, commerciano. Sembra davvero che ognuno vada a qualche cosa. Ma dove vanno, e che vogliono? E perché si difendono così l’uno dall’altro e si combattono?
Il pensiero di Carlo assurge alle vette abitate solo dai sommi; spirano tra le sue righe echi delle parole che il Cristo pronunciava quando calpestava le polveri assolate della Palestina; parole che anche il Buddha usava per condividere con i suoi monaci il frutto del suo risveglio; parole che tutti i sapienti riconoscono perché hanno visto oltre il velo opaco dell’apparenza.
Il versatile genio di Carlo si espresse anche in una serie di liriche in cui il ritmo di canto ora melanconico ora gaio ed ammiccante riveste e camuffa i temi duri della vita. Alcuni versi ricordano passi dei Canti di Giacomo Leopardi ma il timbro della voce è assolutamente originale:
Dal commercio degli uomini rifuggo
Allora alla campagna solitaria
O alla mia stanza solitaria e solo
Tutto in me mi raccolgo.
Notevole la serie di schizzi, disegni, caricature, quadri a olio di Carlo, cui il comune di Gorizia dedicò una mostra attenta ed accurata nel 1992. Sono riprodotti nel volume L’immagine irraggiungibile, Edizioni della laguna 1992.
Poco oltre il confine di Stato, entrati nella parte slovena di Gorizia, è un dimesso grumo di terra, sparso di lastre di marmo e di pietra. Dalla strada, sia pure attento al traffico, l’occhio lo coglie di lato, come macchia che recede, prendendolo forse per un terreno di scarico. Sono i resti di un antico cimitero. Lì il corpo di Carlo Michelstaedter è divenuto polvere sotto il semplice cippo fra due alberi che fino a pochi anni fa si ergevano ad ombreggiare il suo nome che lentamente sbiadiva, tra i licheni che fiorivano sulla pietra. Provai pace a sostare in quel luogo non più aduso al rumore dei passi. La parte di Carlo che non morirà alita altrove, finalmente uno con l’assoluto che qui aveva intravisto con il suo occhio acutissimo.
Postilla
Convengono ad una personalità straordinaria, eventi straordinari.
Guido Ceronetti, poeta e saggista e traduttore di diversi libri biblici nel suo linguaggio folgorante ai confini dell’eresia, dettò questa memoria nel 1985:
Non è lecito disturbare le ombre, i Mani sono irritabili, sunt aliquid; tuttavia l’ho fatto e non me ne pento, per sapere di più. Un’amica torinese che partecipa a sedute medianiche ha consultato per me uno spirito- guida, che ha rintracciato, nella sua nicchia di silenzio, il Qualcosa che, al di là del velo del visibile, di questa opaca cortina del mondo, ancora parrebbe esistere dell’essere raro tra gli uomini che fu Carlo Michelstaedter, morto da 74 anni. I consulti sono stati più d’uno, e non sono ancora terminati. Michelstaedter parla nel suo difficile linguaggio, ma in modo come sfibrato, con un accento di estrema lontananza, che conferma stupendamente l’antichissima definizione semitica dei morti : refaìm, i Deboli, gli Indeboliti (dantescamente: “chi per lungo silenzio parea fioco”)
Aveva ragione David Hume: Non è offesa a Dio il togliersi la vita (è sempre Dio a toglierla); Michelstaedter potrebbe rassicurare Amleto. Non sembra aver patito, sull’altra sponda, speciali sanzioni. Del proprio suicidio dice però che fu il suo atto “più arbitrario” e una protesta “contro sé stesso”, non una fuga. Dunque, un’espiazione. Le espiazioni volontarie di chi ha mani pure sono sempre cariche di significato. Credo di aver trovato, a questo suicidio così improvviso e strano (di cui il Frammento sul suicidio di Leopardi fornisce una spiegazione esemplare) un senso, che sottoporrò per verifica al giudizio dell’Ombra.
(Autoritratto; Che faccia da delinquente!!)