Blake e Coleridge

Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri

Blake e Coleridge

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(un incontro)

William Blake morì nel 1827. Nel giorno del suo trapasso volle eseguire il ritratto della moglie, “perché sei stata un angelo per me,” e cantò inni di felicità che, confessò a chi gli faceva compagnia in quel giorno estremo del suo esilio su questa terra, non erano di sua composizione, ma gli venivano da lontano. Alle sei della sera spirò, esalando un respiro come di brezza gentile. Pochi anni prima di quell’evento, Charles Augustus Tulk, un seguace del teosofo svedese Emanuel Swedenborg, ebbe l’idea di fare incontrare i due poeti romantici più estatici dell’epoca: un giorno condusse Samuel Taylor Coleridge, l’autore de Il Canto dell’Antico Navicante, a Fountain Court, dove abitava Blake. Lì Coleridge, assai più giovane del poeta e stampatore e visionario più misconosciuto e frainteso del suo tempo, ammirò a lungo Il Giudizio Universale, l’opera che tenne occupato William Blake per quasi diciassette anni, tanto che la disegnò e ri-disegnò e dipinse e ri-dipinse per ben sette volte, sovrapponendo all’immagine originale molti strati di colore: è una composizione complessa in cui Blake rielabora a modo suo un tema cui Michelangelo diede una forma e un contenuto insuperati. Coleridge, che era noto per dilungarsi in monologhi interminabili sugli argomenti che gli stavano a cuore, improvvisò un erudito commento sulla creazione artistica di Blake, a lungo divagando sulle fonti dell’opera, sui significati iconografici e religiosi. Charles Augustus Tulk osservò che “Blake e Coleridge, in conversazione, davano l’idea di esseri di natura affine appartenenti ad un’altra sfera, inviati a respirare per qualche tempo su questa terra.”

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(William Blake: Giudizio Universale)

Non è stato registrato ciò che i due poeti si dissero in quella occasione, ma noi possiamo cercare di ricreare un poco della magia di quell’incontro. Il dialogo seguente, frutto della fantasia associativa di chi scrive, pone in bocca ai due protagonisti parole e riflessioni che essi stessi pronunciarono od espressero, a voce o nei propri scritti.

WB: Mi sento talvolta debole, ma non nello Spirito, non nella Vita Vera, non nell’Uomo Reale che è Immaginazione, che vive in Eterno.

STC: Nelle notti, contemplando le stelle, si può comprendere quello che si avverte su una nave che scivola sul mare, allorché si ascolta il suono dell’acqua che si infrange contro il fianco del vascello; non si prova sgomento, è come sentirsi a casa propria, e la Morte stessa appare come un viaggio, un viaggio invero non lontano da, ma verso il proprio paese natale.

WB: Ciò che può essere reso esplicito agli Idioti non merita la mia fatica. Io so che questo Mondo è un mondo di Immaginazione e di Visione. Io vedo tutto ciò che dipingo in questo mondo, ma non tutti vedono allo stesso modo. Agli occhi di un avaro una moneta d’oro è più bella del sole e una borsa consunta dall’uso del denaro ha proporzioni più leggiadre che una Vigna ricolma di Uva. Agli occhi dell’Uomo di Immaginazione, la Natura è pura Immaginazione. Per me questo mondo è una continua Visione di Fantasia o Immaginazione.

STC: L’Immaginazione è un potere divino, la grande facoltà della mente. Tra l’”Io Sono” della mente umana e l’eterno “E’” della Natura, l’Immaginazione è la facoltà mediatrice che li concilia. L’Immaginazione scioglie, diffonde, disperde, al fine di ri-creare. Ove ciò non sia possibile, essa fa ogni sforzo per idealizzare e unificare. Il poeta porta a compimento ciò che l’Immaginazione gli detta, e spalanca le porte della comprensione e della rivelazione.

WB: Chiesi un tempo ai profeti Ezechiele ed Isaia come potessero asserire con tanta sicumera che Dio aveva parlato con loro. Mi risposero che le rivelazioni non si erano offerte alla percezione organica, ma i loro sensi avevano scoperto l’infinito in ogni cosa. La ferma convinzione che una cosa sia così, la rende tale. Tutti i poeti lo sanno, e nelle epoche di Immaginazione la fede smosse le montagne.

STC: Si nutre il poeta del miele e del latte che stillano dai campi del Paradiso. Il suo canto edifica monumenti di parole e di musica, più durevoli spesso di quelli modellati con pietre e con marmi. Con le ombre dell’Immaginazione il poeta induce ad una conscia sospensione dell’incredulità per il momento, che costituisce la fede poetica.

WB: La mia Astratta follia mi invade spesso quando lavoro, e mi trasporta oltre valli e oltre montagne, che non sono materiali, nella Terra dell’Astrazione, dove vagano gli Spettri dei Morti.

STC: Quale mistero siamo! Quale problema si presenta nello strano contrasto tra l’indistruttibilità dei nostri pensieri e la natura caduca e fugace della nostra coscienza…

WB (cantando): La strada dell’Eccesso conduce al palazzo della Saggezza. L’Eternità è innamorata delle produzioni del tempo. Esuberanza è Bellezza. Se le porte della percezione fossero ripulite, ogni cosa apparirebbe all’uomo come essa veramente è, infinita. La nudità della donna è l’opera di Dio. La creazione di un fiore è il travaglio di molte ere.

STC (gli occhi rapiti in estasi):

      Ora è tempo di commiato, ma questo

       Ti confesso, o Convitato!

       Bene sa orare chi bene sa amare

       E l’uomo e gli animai che sono in terra.

      Migliore preghiera è di chi ama al meglio

      Tute le cose, l’infime e le grandi;

      Perché Dio, ch’amor ci porta,

      Tutto ha creato e tutto ama.

Qualche raro passante dall’anima più sensibile e ricettiva di quella ordinaria del volgo, avrà allora notato con curiosa inquietudine che dalla finestra di quella casa usciva una luce più intensa di quella che lampade e candele solevano produrre. Non si sarà accostato, perché quel fascio luminoso suggeriva innegabili sentimenti di timore e di tremore, ma volgendo i passi verso casa, avrà meditato su quell’insolita, improvvisa apparizione, sentendo in sé un’eco di saggezza nuova, non immune da una strana aura di tristezza.

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La stanza dove William Blake visse creò e morì.

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