Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri
Biblioteca, biblioteche
Biblioteca è un termine a cui si legano più significati. E’, primariamente, il luogo vagamente austero destinato alla conservazione e alla consultazione di libri: in questo caso è una istituzione pubblica o privata, caratterizzata da regole, personale addetto, orari di apertura al pubblico, risorse finanziarie opportunamente stanziate: viene da pensare alla leggendaria Biblioteca di Alessandria, rinata nei nostri tempi; alla Marciana, alla Vaticana, alla biblioteca Joanina di Coimbra, a quella del Trinity College di Dublino, e a tante altre ancora. Il secondo significato del vocabolo denota la collezione di volumi che si ha in casa, ed il mobile che la ospita. In una terza accezione, si fa riferimento soprattutto alle conoscenze e alle competenze che la quantità di volumi frequentati ha consentito di accumulare in tanti anni di studio o di lavoro o di svago: non è insolito dire scherzosamente di qualcuno, che “è una biblioteca ambulante”. La biblioteca, potremmo dire, è quindi anche una costruzione mentale dai confini difficilmente delineabili, oltre che un manufatto e una istituzione. In ogni caso, il nome evoca ore di silenziosa operosità, durante le quali viene coltivata la parte più nobile della nostra umanità. Per alcuni di noi la biblioteca, in qualunque accezione sia considerata, si identifica con molti dei momenti più belli della nostra vita, addirittura senza di essa sarebbe difficile immaginare un tempo davvero nostro e prezioso. Avvicinarsi ad uno scaffale, accarezzare con gli occhi o con le mani i dorsi dei volumi ben disposti l’uno accanto all’altro, rimuoverne uno, aprirlo e leggerlo, al tempo stesso avvertendo il gradevole profumo di carta e di inchiostro e di rilegatura: queste semplici operazioni non solo hanno nutrito tante giornate, hanno soprattutto aperto orizzonti, risposto a domande di non indifferente tenore, forse anche hanno placato ansie e hanno fatto dimenticare l’inflessibile tirannia del tempo.
Mario Vargas Llosa, di cui si è già parlato in questa rubrica, ha dedicato un libretto, intitolato Elogio de la educación, all’importanza che i libri hanno, o possono avere, nel processo di miglioramento della persona e della comunità. Uno dei capitoli del volume ha per titolo “Elogio de las bibliotecas”. Tra le osservazioni di Vargas Llosa in questo intervento, mi è parsa degna di nota la seguente: En una biblioteca el tiempo no transcurre como transcurre fuera de ella. En la realidad en la que vivimos, el presente aniquila el pasado y el futuro aniquila el presente, en tanto que en una biblioteca, gracias a los libros y documentos que en ella habitan, el tiempo es una materia que circula y en la que el pasado, el presente y el futuro coexisten. Lascio la citazione nella lingua originale, perché non credo che offra difficoltà insormontabili. Nel caso contrario, basta recarsi nella più vicina biblioteca, consultare un dizionario spagnolo-italiano e, avendo sciolto le eventuali oscurità, sentirsi colmare da un piacevole senso di gratificazione personale. Poco più avanti, il romanziere premio Nobel 2010 commenta l’importanza della biblioteca nel nostro tempo, ricordandoci che la vita, per la maggioranza degli uomini e delle donne della nostra epoca, è diventata incredibilmente ripetitiva. Trascorre su binari dai quali pare sempre più difficile allontanarsi. La noia e la mancanza di incentivi crescono. Basta però entrare in una biblioteca e le abitudini si dimenticano, insieme con gli orari e le scadenze da rispettare, e le ore si convertono in avventura e in appassionante arricchimento. E’ solo il caso di rilevare che l’uscita da questa gabbia mortificante non è fuga dalla realtà, ma abbandono di una condizione falsa verso la scoperta di una sfera umana più intensa e più luminosa. Allora comprendiamo che anche in noi sono presenti le bizzarrie di don Chisciotte, i sogni ad occhi aperti di Madame Bovary, l’ossessione del Capitano Achab, la grettezza spirituale di don Abbondio e la magnanimità gloriosa del Cardinal Federigo Borromeo. C’ è tanta ricchezza nascosta in ciascuno di noi: non è un’attività disprezzabile imparare a riconoscerla, soprattutto nell’età dei prodigi tecnologici, che tanta distrazione veicolano e magnificano.
L’altro volume di cui si intende parlare in questo articolo, è stato pubblicato da Roberto Calasso, fondatore e direttore della casa editrice Adelphi, nel 2020 e s’intitola Come ordinare una biblioteca. Non è un manuale per apprendisti bibliotecari, ma una sobria, sincera dichiarazione d’amore al mondo dei libri, ricca di aneddoti, di personaggi (da Aldo Manuzio ed Erasmo da Rotterdam, a Bruce Chatwin e Isaiah Berlin), di notizie affascinanti su tante opere a stampa (libri e riviste e recensioni), di speculazioni sul migliore ordine nella disposizione dei libri. Argomenta Calasso che questo “non può che essere plurale, almeno altrettanto quanto la persona che usa quei libri. Non solo, ma deve essere al tempo stesso sincronico e diacronico: geologico (per strati successivi), storico (per fasi, incapricciamenti), funzionale (connesso all’uso quotidiano in un certo momento), macchinale (alfabetico, linguistico, tematico). E’ chiaro che la giustapposizione di questi criteri tende a creare un ordine a chiazze, molto vicino al caos, e questo può suscitare, a seconda dei momenti, sollievo o sconforto”. L’arguzia di questo suggerimento tassonomico mi ha ricordato un esilarante passo in cui Jorge Luis Borges parla di una improbabile enciclopedia cinese in cui si dice che gli animali si dividono in “a) appartenenti all’Imperatore, b) imbalsamati, c) addomesticati, d) maialini da latte, e) sirene, f) favolosi, g) cani in libertà, h) inclusi nella presente classificazione, i) che si agitano follemente, j) innumerevoli, k) disegnati con un pennello finissimo di peli di cammello, l) et caetera, m) che fanno l’amore, n) che da lontano sembrano mosche.” Dal riso irrefrenabile che queste parole provocarono, nacque, però, per sua stessa ammissione, una delle opere più significative di Michel Foucault, Le parole e le cose. Tanto grande è il potere dei libri.
Ci si convince, leggendo questo testo della Piccola Biblioteca Adelphi, che anche la propria vita è un libro, con le sue pagine ormai lette, quelle sotto i nostri occhi proprio ora, e quelle che si spera aspettino ancora la nostra attenzione, avvolte nella vaga aurea dell’incerto futuro e non così fisicamente lì come quelle del volume che abbiamo in mano.
La lettura del libro di Calasso mi ha fatto pensare a Hernando Colón, figlio illegittimo di Cristoforo Colombo, vissuto tra il 1488 e il 1539. Oltre a visitare il Nuovo Mondo, nel corso dell’ultimo viaggio del padre, Hernando fu in grado di dare sostanza ad un sogno che nessun aveva sognato prima di lui, costituire la prima biblioteca privata del mondo. Raccolse, nel corso di una vita di viaggi e di ricerche, una collezione di circa 20.000 esemplari: volumi, opuscoli, carte geografiche, fogli con canzoni e con ballate, immagini popolari. Soltanto nell’anno 1530 visitò Roma, Bologna, Modena, Parma, Torino, Milano, Venezia, Padova, Innsbruck, Augsurg, Costanza, Basilea, Friburgo, Colonia, Maastricht, Anversa, Parigi, Poitiers e Burgos, acquistando libri dovunque si fermava, e trasportando tutto nella sua Siviglia. Creò anche il primo sistema di catalogazione, completo di cartellini riassuntivi che potevano essere spediti a chi fosse interessato. Presso la Cattedrale di Siviglia, in una stanza sotto il portico che corre intorno al giardino degli aranci, è conservato quanto resta di quella straordinaria collezione. Hernando è sepolto all’inizio della navata principale della chiesa, poco distante dal gigantesco sarcofago che conserva i resti del celebre padre.
Credo che Hernando Colón avrebbe compreso quello che Jorge Luis Borges (non è un caso ripetere il suo nome: il grande scrittore argentino fu aiuto catalogatore alla biblioteca municipale Miguel Cané nel quartiere di Boedo, a Buenos Aires, e dal 1956 direttore della Biblioteca Nazionale) scrisse nel suo racconto “La biblioteca di Babele”: “L’universo (che altri chiama la Biblioteca) si compone d’un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali, con vasti pozzi di ventilazione nel mezzo, delimitati da basse ringhiere. Da qualsiasi esagono si vedono i piani superiori e inferiori, interminabilmente. La distribuzione delle gallerie è invariabile. Venticinque vasti scaffali, in ragione di cinque per lato, coprono tutti i lati meno due; la loro altezza, che è quella stessa di ciascun piano, non supera di molto quella di un bibliotecario di statura ordinaria. Il lato libero dà su un angusto corridoio che porta a un’altra galleria, identica alla prima e a tutte. A destra e a sinistra del corridoio vi sono due gabinetti minuscoli. Uno permette di dormire in piedi; l’altro di soddisfare i bisogni corporali. Di qui passa la scala a chiocciola, che s’inabissa e s’innalza nel remoto. Nel corridoio è uno specchio, che fedelmente duplica le apparenze. Gli uomini sogliono inferire da questo specchio che la Biblioteca non è infinita (se realmente fosse tale, perché questa duplicazione illusoria?); io preferisco sognare che queste superfici brunite figurino e promettano l’infinito…”