B. Traven

Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri

B. Traven

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(?1882 – 1969)

 A B. Traven è riuscito ciò che nella civiltà delle comunicazioni di massa pare praticamente impossibile: vivere appartato facendo uscire verso l’esterno solo ciò che il suo animo di artista gli dettava. Scrittori che come lui hanno tentato di proteggere la propria riservatezza, sono stati oggetto di lugubri appostamenti che ne hanno violato l’intimità, offesi e menomati come ancora pareva di esserlo agli indiani d’America che non volevano che la macchina fotografica rubasse il loro nume tutelare.  Si ricorda il caso di Jerome David Salinger, l’autore di The Catcher in the Rye  (Il giovane Holden, nella traduzione italiana) che, ormai anziano, fu sorpreso da un fotografo fuori da un supermercato;  quello di Thomas Pynchon, elusivo scrittore di libri di culto come Gravity’s Rainbow (Arcobaleno di gravità), invano ma ostinatamente pedinato lungo i nodi delle connessioni internet.  Carlos Castaneda, autore della sensazionale serie di opere di narrativa antropologica sul suo apprendistato presso un medicine man legato al mondo magico del Messico, fu più fortunato:  i poteri arcani che avrebbe appreso dallo stregone Yaqui cui diede il nome di don Juan Matus, gli insegnarono come tenere a distanza il mondo.

Di B. Traven non si sa nulla di certo. Informazioni, date, pseudonimi si possono ricavare dal libro The Man Who Was B. Traven di W. Wyatt, pubblicato nel 1980: lo scrittore si chiamò dapprima Albert Otto Max Feige, poi Ret Marut, o forse Berick Traven Torsvan. Nacque a Swiebodzin, allora cittadina polacca poi tedesca, nel 1882; altri pongono la nascita a Chigago, il 5 marzo 1890. Abbandonata la Germania dopo i moti del 1919, cui forse prese parte in qualità di membro del partito comunista, si stabilì nel Messico, attento osservatore della dura vita delle campagne e della degradazione che le compagnie petrolifere americane imponevano al territorio e alla popolazione. Scrisse Der Schatz der Sierra Madre (Il tesoro della Sierra Madre) nel 1927 o nel 1934. Sempre più ostinatamente recluso, talvolta forse appariva ai visitatori sotto la maschera del proprio traduttore, Hal Croves.  Se a B.Traven accadde di morire, ciò avvenne a Città del Messico il 27 marzo 1969.

Il tesoro della Sierra Madre è un romanzo di avventura  tra i maggiori del Novecento: potente l’intreccio che avvince; attenta e vera l’indagine psicologica che sa spingersi sino alla ricreazione delle allucinazioni indotte dall’avidità e dalla fatica; magistrale il realismo che trascende il bozzetto e coglie il nesso tra il paesaggio aspro e impietoso e lo spirito della gente che lo abita. Il narratore mescola passato e presente inserendo passi della più bella tradizione picaresca o folclorica; allo stesso tempo racconta delle ferite che le grandi compagnie industriali producono nel corpo geografico e sociale di una nazione povera e arretrata;  i disturbi e i danni all’ambiente; l’abbrutimento e il disorientamento degli uomini, che divengono vagabondi o disoccupati o criminali, cui i sentimenti gentili si fanno ignoti quanto le leggi che governano i moti dei pianeti.

Il romanzo è costruito intorno al motivo archetipico della ricerca di ciò che dona la felicità finale: nel mito è la pianta che dona l’immortalità, come nel caso dell’epopea di Gilgamesh, l’eroe dell’antica Mesopotamia che dapprima riesce a cogliere il frutto della sua impresa sovrumana, poi conosce l’amara sconfitta;  nel ciclo di leggende legate alla ricerca spirituale è la coppa del Santo Graal con personaggi come Galvano, Perceval, Tristano. In epoca moderna si può pensare al capitano Achab e alla sua ossessiva caccia alla balena bianca, narrata in Moby Dick, il grande romanzo di Herman Melville.

I tre protagonisti di Il tesoro della Sierra Madre, Howard, Dobbs e Curtin scoprono che l’oro che nei loro sogni avrebbe cancellato lo squallido orrore delle loro vite, è in realtà il principio della disintegrazione, irridente miraggio che sembra ben reale da lontano, ma si sgrana tra le dita delle mani, cade nella terra, si confonde e si perde nella sabbia e nella polvere quando si crede di possederlo. Il tono del romanzo è fissato con sicurezza stilistica sin dalle prime righe, in cui uno dei protagonisti è introdotto con pochi tocchi che ne fissano la condizione di reietto e la spietata e bruta volontà di autoconservazione:

La panca sulla quale sedeva Dobbs era in cattivo stato. Una delle assicelle era rotta e quella vicina così contorta che sedervi sopra era una sorta di supplizio. Se Dobbs meritasse questa punizione, o se la punizione gli fosse in questo caso inflitta ingiustamente, come accade per la maggior parte delle punizioni, un tale pensiero non gli occupava certo la mente ora. Avrebbe notato la sua scomoda posizione soltanto se qualcuno gli avesse domandato se si sentiva a suo agio. Nessuno, naturalmente, si preoccupava di domandarglielo.

Dobbs era troppo preso da ben altre riflessioni per fare caso a come sedeva. Si stava sforzando, infatti, di risolvere l’annoso problema che fa dimenticare alla gente ogni altro pensiero. Si tormentava il cervello per rispondere alla domanda: come posso ottenere un po’ di soldi ora?

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Traven è interessato alle forze essenziali della condizione umana, che vede con chiarezza nelle situazioni che la povertà e l’ingiustizia indifferente rendono estreme. I bisogni primari divengono ossessioni e incubi, ogni svolta del destino appare come una beffa, si distorcono le fattezze dei volti in smorfie che la rabbia cruda fa esplodere in dure bestemmie. Sono memorabili le descrizioni della Sierra Madre selvaggia e terribile, degli scontri con i banditi, della fatica quasi disumana che la polvere d’oro impone a chi la ricerca, della solitudine e della folle brama che occupa ogni pensiero, dello splendore dell’oro che diviene tenebrosa scia di morte.

Humphrey Bogart seppe splendidamente modulare il suo viso per trasmettere le passioni e l’involuzione malvagia e inarrestabile di Dobbs, che rendono indimenticabili le pagine di Traven. Recitò da protagonista nel film che John Huston diresse nel 1948. Il regista americano decise di dare la parte dell’anziano Howard, conoscitore delle malie nefaste che l’oro può provocare, al proprio padre Walter, che creò un personaggio convincente e significativo e pieno di umanità.  Nei suoi toni ci pare talvolta che potrebbero risuonare le classiche dadenze virgiliane dal terzo libro dell’Eneide: Quid non mortalia pectora cogis, auri sacra fames. Il film rese Il tesoro della Sierra Madre oggetto di ulteriore ammirazione.

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