Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri
Alessandro Manzoni
(1785 – 1873)
(per mio padre)
Negli anni dei banchi di scuola, noiosi se qualche paio di occhi vivaci non contraccambiano il nostro sguardo bramoso di vita, generalmente non si impara ad amare i classici. Quello che spesso ne sortisce, quando le cose vanno bene, è una seriosa applicazione che sfocia in dati e commenti appresi per lo più a memoria, il cui senso svapora come nebbia dopo che si sono riposti i volumi in adozione. Se le esperienze sono meno piacevoli si impara il disamore, il fastidio: mai più uno di questi autori sarà degnato della nostra attenzione.
Tra gli artisti che hanno molto sofferto nei labirinti dei curricoli del sistema di istruzione italiano è Alessandro Manzoni . A milioni di studenti tra i dieci e i diciotto anni è stato chiesto di imparare a memoria Il cinque maggio; è stato imposto di trovare senso nei versi degli Inni sacri, che richiedono una mente ben più adulta che quella di un liceale; Adelchi e il Conte di Carmagnola sono divenuti personaggi intimidenti per verifiche e valutazioni; l’educazione sentimentale di Renzo Tramaglino e Lucia Mondella si è svilita spesso ad occasione di sbadigli e battute salaci. Pure, all’aprire del romanzo, si riconosce una felicità antica e insieme nuova:
Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un’ampia costiera dall’atra parte: e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all’occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l’Adda ricomincia, per ripigliar poi il nome di lago dove le rive allontanandosi di nuovo, lascian l’acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni.
Spira dalle pagine de I promessi sposi una tensione di vita e un’eccellenza di stile che hanno l’eguale solo nelle opere dei sommi. Il conte Manzoni ci dice che le vicende dei singoli scorrono nel solco dei grandi eventi della storia: da essi vengono plasmate (quella di Renzo, quella di Lucia, le nostre) anche se non sono compresi. L’autore si chiede, e fa che anche noi ci chiediamo, cosa sia la vita. C’è una struttura, un disegno finalizzato, che ce la faccia vivere così e non in altro modo? A questi interrogativi, che si ripetono generazione dopo generazione, Manzoni ha dedicato gli anni della sua vita, mescolando passione umana e rigore di lingua, cercando e trovando le sue risposte con mente lucida. Quanto influisce sulla storia umile di Renzo e Lucia il peso della Storia, e quanto la Storia può essere compresa dalle creature che la subiscono? Sono domande che coinvolgono tutti, allorchè si cerca di capire il proprio posto nel mondo, il modo di viverlo con passione, con animo aperto. Elsa Morante sentì lo stesso bisogno di investigare e di comprendere, quando scrisse il suo grande,struggente romanzo La Storia.
I promessi sposi sono così apparentemente noti, che rischia di cadere nel vuoto l’invito a leggerli o rileggerli.
Mi permetto di raccomandare un libricino aureo in cui le stesse tensioni e gli stessi moti del cuore che generarono il romanzo, si condensano come materia stellare che pulsa più luminosa quando si restringe: si intitola Storia della Colonna Infame. E’ la vicenda tragica e triste di Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora, presunti untori della peste di Milano del 1630, arrestati torturati messi a orribile morte da un sistema giudiziario colpevole e codardo, divenuto aguzzino per non volere confessare di essere nel torto. Manzoni interroga le carte, sommuove la polvere degli archivi, porta alla luce testimonianze, personalità, intrecci di poteri, e, nel trionfo della sua mente più discriminante e illuminista, mette in chiaro gli abusi, si indigna delle perversioni della giustizia, condanna metodi e modi distorti, non perdona:
L’ignoranza in fisica può produrre degl’inconvenienti, ma non delle iniquità; e una cattiva istituzione non s’applica da sé. Certo, non era un effetto necessario del credere all’efficacia dell’unzioni pestifere, il credere che Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora le avessero messe in opera, come dell’esser la tortura in vigore non era effetto necessario che fosse fatta soffrire a tutti gli accusati, né che tutti quelli a cui si faceva soffrire fossero sentenziati colpevoli.
Dio solo ha potuto vedere se que’ magistrati trovando i colpevoli d’un delitto che non c’era, ma che si voleva, furon più complici o ministri d’una moltitudine che, accecata, non dall’ignoranza, ma dalla malignità e dal furore, violava con quelle grida i precetti più positivi della legge divina, di cui si vantava seguace.
Questa intransigenza è forse il punto più sorprendente, specialmente se, come accade a chi scrive, si ricordano le assurde e penose distinzioni scolastiche tra il dio terribile di Dante, giudice imparziale e spietato (i barbogi si dimenticavano di Manfredi nepote di Costanza imperadrice, di Buonconte da Montefeltro, di Cunizza da Romano, di Giustiniano), e il dio misericordioso di Manzoni, che come un buon vecchio infine china il capo e dimentica.
Non è così.
Ci sono eventi che, secondo Alessandro Manzoni, non si possono condonare. In piena coscienza, senza gonfiori retorici, Manzoni insegna questa posizione, aprendo con le parole seguenti, indimenticabili e terribili, la sua opera storica, che molti considerano la vera chiusa del suo romanzo:
Ai giudici che, in Milano, nel 1630, condannarono a supplizi atrocissimi alcuni accusati d’aver propagata la peste con certi ritrovati sciocchi non men che orribili, parve d’aver fatto una cosa talmente degna di memoria, che, nella sentenza medesima, dopo aver decretata, in aggiunta de’ supplizi, la demolizion della casa d’uno di questi sventurati, decretaron di più, che in quello spazio s’innalzasse una colonna, la quale dovesse chiamarsi infame, con un’iscrizione che tramandasse ai posteri la notizia dell’attentato e della pena. E in ciò non s’ingannarono: quel giudizio fu veramente memorabile.