Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri
Rudyard Kipling
(1865 – 1936)
Rudyard Kipling non è molto popolare nel nostro tempo. Anche chi studia lingua e civiltà inglese nella scuola superiore, difficilmente si imbatte in questo scrittore, purtroppo associato alla celebrazione dell’impero britannico, e alla superiorità dell’uomo occidentale su tutti gli altri popoli della terra. Per quanto sinceramente convinto della missione civilizzatrice che agli inglesi era toccata in sorte come dovere storico ineludibile nei confronti degli indiani (fu lui a coniare, in una poesia, l’espressione The white man’s burden, “Il fardello dell’uomo bianco,” per dare veste morale alla presenza dell’uomo ocidentale nelle parti sottosviluppate del mondo: portare, cioè, la cultura europea ai pagani non civilizzati), non è possibile condonare le sofferenze e gli abusi che tutto il lungo periodo di colonizzazione causò. Chi volesse intendere la complessa ambiguità di quella condizione, può con profitto considerare un capolavoro della narrativa inglese del ventesimo secolo, A Passage to India, di Edward Morgan Forster, che uscì nel 1924.
Nato a Bombay, poiché il padre, poliedrica figura di funzionario e di artista, svolse la sua carriera in India, fino a diventare sovrintendente del museo di Lahore, Rudyard Kipling fu educato in Inghilterra, in una atmosfera traumatizzante caratterizzata da bullismo e punizioni corporali, e tornò poi in Oriente nel 1882, lavorando come giornalista. Fu un attento e appassionato osservatore del paese in cui era nato, ripetutamente esplorandone le complesse e fascinose abitudini di vita. Più che nei suoi romanzi, tra i quali si ricordano Capitani coraggiosi (1897) e Kim (1901), il suo talento narrativo trovò la propria migliore espressione nei racconti pubblicati nella raccolta dal titolo The Jungle Books (1894 – 1895), in italiano Il Libro della Giungla. Questi racconti sono spesso impeccabili, oltre che per l’intreccio, anche per lo stile. Una curiosità editoriale è che il libro uscì corredato delle belle e raffinate illustrazioni del padre, elegante disegnatore.
Tra i protagonisti è Mowgli, il cucciolo d’uomo che viene accolto da una famiglia di lupi e cresce al di fuori del cerchio protettivo della civiltà. L’interessante scelta di Kipling è che Mowgli non è l’assoluto protagonista del libro, come se il fatto di essere umano conferisse, per ciò stesso, una superiorità indiscutibile su tutti gli altri animali. Mowgli è uno dei personaggi, altrettanto, talvolta addirittura meno, importante che la pantera Bagheera, l’orso Baloo, e Akela, il capo del branco dei lupi. Bagheera e Baloo istruiscono il delicato cucciolo d’uomo secondo i dettami della legge della giungla, lo proteggono, lo consigliano lo castigano. La legge è riassunta dalla pantera dal nero manto in poche incisive parole: “What is the Law of the Jungle? Strike first and then give tongue. (“Qual è la legge della Giungla? Prima colpisci, poi usa la parola”). Sembra la regola di un mondo spietato, ma, invero, la parola è sovrana anche nella foresta, tanto che Mowgli interagisce con gli animali che vi abitano grazie alla conoscenza del loro linguaggio. Né si può dimenticare che è proprio la parola che permette la nascita e la crescita dei racconti. Tra i più memorabili è quello che narra come Mowgli fu rapito un giorno dalle scimmie, che da lui volevano apprendere le tecniche specificamente umane della costruzione e dell’organizzazione. Per Bagheera e Baloo fu molto difficile liberarlo, e soltanto grazie all’aiuto del pericoloso ma fondamentale pitone Kaa. La scena finale della danza di Kaa, che getta un incanto mortale sulle scimmie paralizzate intorno a lui (le scimmie sono sprezzantemente chiamate Bandar-log dagli altri animali, perché “il popolo delle scimmie è vietato agli altri abitanti della giungla”), mentre il cielo si oscura e un silenzio inquietante scende sulle rovine della città dove le scimmie avevano cercato rifugio, ritiene tuttora un vivo interesse narrativo. Altrettanto emozionante è il racconto dell’atto finale della guerra tra Mowgli e Shere Khan, la tigre dal piede zoppo che ha giurato di uccidere e divorare il cucciolo d’uomo: ma quest’ultimo si dimostra stratega coraggioso, intelligente ed astuto.
Altri racconti intrecciano avventure di personaggi e luoghi diversi. Tra di essi si ricorda il piccolo Toomai, che diviene Toomai degli Elefanti dopo che i pachidermi accettano che assista allo spettacolo più arcano che la giungla possa offrire, la danza degli elefanti; un racconto è ambientato addirittura nei mari del nord, ed ha per protagonista Kotick, una insolita foca bianca. Tra le più fortunate creazioni di Rudyard Kipling è certamente Rikki-tikki-tavi, la giovane mangusta che si ritrova a dovere lottare con i due cobra Nag e Nagaina nel giardino della casa dove ha trovato ospitalità e affetto, dopo che il monsone ha distrutto la sua tana e la sua famiglia. Il nome della mangusta deriva dal grido di guerra del piccolo mammifero, allorquando, tra l’erba alta, erge la coda e lancia la sua sfida: “Rikk-tikk-tikki-tikki-tchk!” Il fascino di questo racconto è grande, e in molti, non solo i bambini, ancora ascoltano con attenzione e viva partecipazione le prodezze del piccolo animale.
Uno dei più bei complimenti resi a Rudyard Kipling viene da due studiosi del mito, Giorgio De Santillana e Hertha von Dechend. Nel loro prezioso e denso volume Il mulino di Amleto, pubblicato nel 1969, uno dei rari libri che sanno trasformare radicalmente la nostra comprensione del mondo (in questo caso mettendo in luce aspetti e significati inauditi del cosiddetto pensiero arcaico, che osava interpretare il mondo leggendo il percorso degli astri nei cieli), scrivono del nostro autore: “Kipling era uno scrittore ancora meravigliosamente in armonia con la mente del fanciullo che vive nella maggior parte di noi.”
La mente del fanciullo, chiosiamo noi, è in stretta comunione con la dimensione del mito, che è la modalità altra di raccontare e di intendere l’universo che ci parla per enigmi.