I luoghi: lo Stelvio

Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri

I luoghi: lo Stelvio

stelvio

(Passo dello Stelvio, m. 2758)

Vi sono nomi che conferiscono ai luoghi o alle persone che evocano un’aura di unicità e di pregio tale da produrre forte entusiasmo e inquietante soggezione allo stesso tempo. Lo seppe Platone, che fa dire a Socrate, nel dialogo intitolato Teeteto, che Parmenide, incontrato da Socrate giovinetto ad Atene, gli pareva essere “venerando e insieme terribile”: le nobili fattezze del grande sapiente spiravano desiderio di comunione intellettuale e contemporaneamente una sorta di timoroso impaccio. Accade che anche i luoghi siano ammantati di questa atmosfera che li rende, a chi ne sente il fascino, sia irresistibili mete di pellegrinaggio, sia recinti sacri, che si vorrebbe fossero vietati al profano. In Italia il Piave fa parte, per me, di questa eletta schiera, non solo a causa dei memorabili eventi storici che lì accaddero nel corso della prima guerra mondiale: ogni volta che mi capita di giungere alle sue sponde, il corso d’acqua si riveste delle memorie che caratterizzarono la mia fanciullezza, quando il nonno paterno mi raccontava della sua esperienza di “ragazzo del ’99”, impegnato nella controffensiva italiana dopo la disfatta di Caporetto; le strofe della canzone che il maestro ci insegnò negli anni della scuola elementare (“Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio / dei primi fanti il 24 maggio…”) tornano struggenti, e spontanei, alle labbra.

Un altro luogo dell’Italia, non solo per me, ha anch’esso assunto i caratteri dell’unicità leggendaria, grazie al cielo per episodi meno cruenti: è lo Stelvio, in particolare la strada statale 38, che il campionissimo Fausto Coppi ha reso indimenticabile nel nostro immaginario. Accadde il primo giugno 1953: a undici chilometri dal passo, l’Airone (come era soprannominato in omaggio alla sua figura magra slanciata ed elegante) lanciò la sua fuga; il gruppetto di testa che comprendeva Gino Bartali e Hugo Koblet fu sgretolato dall’esplosiva azione del campionissimo che guadagnava secondi tornante dopo tornante, dando l’impressione di un’aerea danza in bicicletta. Coppi scollinò con quattro minuti di vantaggio, scese velocissimo verso Bormio e, nonostante una caduta, vinse la tappa e conquistò la maglia rosa del primato, vincendo poi il Giro per la quinta volta nella sua carriera. Le immagini, un poco sfocate e ovviamente in bianco e nero, di quell’impresa scorrono ancora nell’occhio della mente se si salgono quelle rampe con la dovuta concentrazione: l’ascesa diventa così qualcosa di più che un’attività sportiva decisamente impegnativa: acquista i caratteri di un pellegrinaggio nutrito di rispetto e gratitudine. Si crea il momento privilegiato. Spira l’aura.

Passo dello Stelvio (Prato)

(Altimetria, da Prato alla Cima Coppi)

Dopo una notte agitata a causa dell’evidente emozione, mi preparo quando il cielo lentamente comincia ad impallidire. Controllo la temperatura per decidere cosa indossare e riconsidero per l’ultima volta lo stato della mia bicicletta, freni cambio pneumatici: starò in sella per parecchie ore, so che non bisogna trascurare nessun dettaglio. Neanche pensare di fare colazione, l’eccitazione nervosa mi impedirebbe di inghiottire anche un solo boccone. Lascio l’albergo. Quasi nessuno è per la strada, mi pare che le prime pedalate siano fluide, addirittura mi vengono alle labbra, e sorrido, i versi che Vittorio Alfieri fa pronunciare a Saul nella tragedia omonima ad apertura del secondo atto: Bell’alba è questa. In sanguinoso ammanto / Oggi non sorge il sole; un dì felice / Prometter parmi. La strada sale in pendenza costante da Prato allo Stelvio verso Gomagoi e Trafoi, seguendo il corso del Rio Solda (Soldenbach in tedesco, la seconda lingua che si parla qui), l’aria è fresca, qualche occasionale tratto più ripido mi fa pregustare quello che, più sopra, sarà la norma piuttosto che l’eccezione. Ecco annunciarsi Trafoi, vedo davanti a me il primo tornante: occorre superarne 48 per giungere al traguardo. La strada si impenna. I tratti rettilinei tra i tornanti sono di lunghezza irregolare: si va da poche decine di metri a circa due chilometri. Il tornante 46 è dominato dall’albergo di Gustav Thöni, campione di sci alpino impossibile da dimenticare. Giunge l’auto di chi, con grande partecipazione, mi fornirà assistenza e conforto: mi serve qualcosa?, finora tutto bene, grazie, anche se l’aria è fin troppo frizzante nei tratti in ombra e la fatica comincia a farsi sentire. Tornante dopo tornante rifletto sulla strana consonanza tra l’approccio ad una salita e ad un testo letterario: entrambi richiedono sforzo per essere investigati e fatti propri, dedizione e, non si abbia timore di usare la parola, amore. Senza questi requisiti rimangono impenetrabili: il testo un libro chiuso da sette sigilli; la salita una minacciosa muta promessa di sconfitta. La strada, ogni strada, richiede una chiara serietà di intenti, o si sbaglierà il ritmo del proprio tentativo tra le parole e l’asfalto.

Il sole è ora caldo, scorgo alla fine dell’erto rettilineo il tornante 28, a quota 2068: pedalo da 18 chilometri, ho superato un dislivello di 1150 metri, le forze diminuiscono, mi fermo: una prova siffatta è ideale per tentare di conoscere se stessi, ed io, fedele seppur lontano seguace di Eraclito di Efeso, comprendo che un poco di sosta è quello che il mio corpo e la mia mente ora richiedono, insieme alla colazione che non sono riuscito a fare prima della partenza . Il paesaggio si apre, bello, aspro, non umano: peccato che troppe auto e motociclette sporchino l’aria. La sosta mi rianima: sono più agile sui pedali e in breve giungo al rifugio Franzenshöhe, a quota 2183. Intorno alla vasta conca si alzano i picchi che ancora ospitano nevai e ghiacciai. Da lì posso contemplare la famosissima elegante teoria degli ultimi tornanti che, in circa 700 metri di dislivello, portano al passo. La vista è memorabile. Noto che, da un certo punto in poi, la stanchezza muscolare diviene parte del pulsare del corpo: non è tanto una morsa aliena che occorre combattere, quanto una modalità di percezione che detta i suoi ritmi vitali. Come me, tanti altri ciclisti pedalano (qualcuno cammina, spossato, spingendo il suo velocipede) e guadagnano metri in silenzio, convinti, concentrati. Questa è anche un’occasione per una fugace meditazione sulla natura del tempo: mi pare di essere in compagnia di Hans Castorp, il protagonista del grande romanzo di Thomas Mann La montagna incantata, quando si prova la temperatura con il termometro appena acquistato e aspetta che passino i sette minuti che sono richiesti, e il tempo dapprima procede a passo di lumaca poi scivola via inavvertito come su zampine di gatto, e il giovane rimane smarrito e come turlupinato, quando scopre di avere infine lasciato trascorrere otto minuti invece dei fatidici sette: anche nel mio caso, mi dico, i minuti sembrano piuttosto ore, quasi impossibili da superare, impietosi come la strada che sale, sale; eppure, quando sarò lassù, questo tempo lunghissimo e duro si ridurrà ad una serie di istantanee sciolte dal legame cronologico, che passeranno velocissime davanti agli occhi della memoria. Soltanto l’indolenzimento delle membra mi farà certo che non ho fantasticato, o sognato la salita.

Penultimo tornate e, quasi subito, l’ultimo, qui contrassegnato con il numero 1. Ora devo soltanto percorrere l’ultimo tratto rettilineo di salita, seguo il conto alla rovescia segnato sull’asfalto: 500 metri, 400, 300, 200 (mamma mia, ce la sto facendo), 100, ecco il passo, sono arrivato. Vedo il cartello che annuncia la Cima Coppi, l’ascesa è proprio finita. Scendo dalla mia bicicletta, abbraccio ridendo la persona che mi ha fatto compagnia lungo la strada, mi sfuggono le parole, “Ho fatto lo Stelvio!” e mi accorgo che per un attimo la voce si spezza.

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(Tornante dopo tornante)

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Una risposta a I luoghi: lo Stelvio

  1. molly scrive:

    Che bbbello!!!

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