La rilevanza del nonsense

Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri

La rilevanza del nonsense

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Entréme donde no supe,

Y quedéme no sabiendo,

Toda sciencia transcendiendo.

                                                                                  Juan de la Cruz

L’impiego insistito dei giochi nonsense in un testo letterario porta all’estremo limite le possibilità di progressivo scardinamento linguistico che l’opera d’arte spesso favorisce. Se l’uso estetico della parola carica il mezzo espressivo di tensioni impreviste nella pratica quotidiana, tali da coinvolgere anche la sfera etica oltre quella linguistica, la presenza del nonsense produce una ambiguità semantica al limite del paradossale, innescando potenzialmente quel momento di sgomento di fronte al mondo che prelude all’esperienza nota, nell’ambito degli studi delle religioni, come la significativa rottura di livello della coscienza.

Non è troppo lungo o azzardato il passo tra mondo dell’arte e mondo religioso, se si ricorda che l’artista, al pari dell’uomo che si vota alla vita dello spirito, è uno specialista dell’anima umana, una sfera generalmente poco nota alla maggioranza dei membri di una comunità. Come l’uomo del culto, l’artista ha un rapporto ambiguo con l’organizzazione sociale, al confine tra venerazione, scarsa considerazione, aperta ostilità. Pur con evidenti differenze di grado, l’artista e l’uomo di religione manipolano quegli stessi temi porosi e inquietanti che hanno a che fare con il significato della persona e della vita. Un artista richiede sempre un particolare sforzo di concentrazione per essere compreso (anche solo in parte), così che sorgono plausibili analogie con quanto accade tra un maestro di conoscenza e l’allievo che a lui si rivolge per essere guidato lungo il sentiero della saggezza: trasmettendogli il suo sapere nell’ambito di una dura disciplina, il maestro ottiene la purificazione del discepolo. Anche l’intelligenza di un testo richiede una educazione sempre più affinata (quante volte le parole dei classici compongono labirinti in cui si perde colui che non sa staccarsi dal puro senso letterale), la quale può infine alterare la prospettiva da cui si contempla il cosmo.

Non si propone qui una forzata identificazione di materiali eterogenei, né confusione di pratiche e scopi che nulla hanno in comune: si intende indicare, piuttosto, un elusivo aspetto di una tecnica letteraria che, nella sua apparente levità, è più gravida di conseguenze di quanto si possa sospettare a prima vista.

I

Il nonsense è un fenomeno letterario legato principalmente al mondo anglosassone, che vanta autori come Edward Lear, che compose The Book of Nonsense nel 1846, e, soprattutto, Lewis Carroll, l’immortale creatore di Alice in Wonderland (1865) e Through the Looking-Glass (1872). Peraltro il suolo inglese è tradizionalmente fertile di componimenti nonsense, che vanno dai limericks ai jingles ai nursery rhymes: filastrocche tutte caratterizzate da allitterazioni, rime enfatiche, ritmo orecchiabile, personaggi poco plausibili come Humpty Dumpty e Tweedledum and Tweedledee, e senso vago o inesistente. Da questo repertorio ha preso il volo il nonsense d’autore, che sfrutta gli artifici canonici per costringere il materiale linguistico ad esprimere una progressiva sfiducia nelle capacità umane di spiegare razionalmente il mondo: c’è sempre qualcosa che sfugge nelle nostre definizioni, a volte sembra che un senso possa essere estratto soltanto contemplando il suo (apparente) opposto. Allora il nonsense acquista la dignità nuova che G. K. Chesterton puntualizzò nel saggio A Defense of Nonsense, nel 1901:

Questo senso di meraviglia di fronte alle forme delle cose, alla loro esuberante indipendenza dai nostri criteri intellettuali e dalle nostre definizioni banali, è sia la base della spiritualità che la base del nonsense. Nonsense e fede (per quanto questo accostamento possa sembrare strano) sono le due supreme e simboliche affermazioni della verità che tentare di estrarre l’anima delle cose con un sillogismo è altrettanto impossibile quanto pescare il leviatano con un amo.

I giochi delle parole e con le parole esprimono, e insieme alleviano, la mancanza di armonia con il mondo che spesso si fa sentire come “solitudine nella folla”: può essere considerata una tecnica in bilico tra la dichiarazione di sconfitta e il colpo di mano geniale contro la palude dello sconforto. Oltre a questo aspetto diagnostico-catartico (viene indicato il male e un possibile modo di vincerlo, anche solo cominciando a sorridere) il nonsense d’autore sembra proporre una sfida più sottile, una cura più audace: un occulto invito a superare il livello della conoscenza diurna così come è espresso dalle parole quotidiane e, attraverso la riflessione sul linguaggio, a intuire gli spazi che precedono, e seguono, il brusio della lingua. Dove i segni si perdono, i suoni tacciono, la persona si cancella, può aprirsi la possibilità di un nuovo inizio invece che profilarsi l’ombra di una plumbea fine.

Lacerare il tessuto linguistico significa però soltanto preparare il terreno per una coscienza nuova, non vuole dire crearla: il nonsense può indicare la strada con cenni oscuri, non può mostrare la meta.

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II

Uno degli autori che con più brio ha sfruttato le possibilità del nonsense è Tom Stoppard, tra i più prestigiosi rappresentanti della scena teatrale inglese contemporanea, per il quale il gioco scenico è sempre al servizio di un’esplorazione linguistica abbagliante come uno spettacolo pirotecnico. Spesso le situazioni verbali sono tese fino ai confini dell’incomunicabilità, là dove il mezzo espressivo sembra sciogliersi nell’indeterminato: le parole non si perdono però nella cacofonia dei suoni, suggeriscono piuttosto l’erosione della frusta, ripetitiva esperienza della comunicazione.

In Jumpers, pubblicato da Stoppard nel 1972, nel cui frizzante intreccio si mescolano irridenti speculazioni logico-metafisiche e capricciosi delitti, uno dei personaggi così risolve un attesissimo intervento filosofico sulla natura morale dell’uomo:

‘Man – good, bad or indifferent?’ Indeed, if moon mad herd instinct, is God dad the inference? – to take another point: If goons in mood, by Gad is sin different or banned good, f’r’instance? – thirdly: out of the ether, random nucleic acid testes or neither universa vice, to name but one – fourthly: If necessary being isn’t, surely mother of invention as Voltaire said, not to mention Darwin different from the origin of the specious – to sum up: Super, both natural and stitious, sexual ergo cogito er go-go sometimes, as Descartes said, and who are we? Thank you.

(‘Uomo – buono, cattivo o indifferente?’ Invero, se luna lunatica istinto del gregge, è Dio papà l’inferenza? – per considerare un altro punto: Se gonzi in bonzi, per Cribbio il peccato è bene diverso o bandito, peresempio? – terzo: tra il lusco e il brusco, acido nucleico casuale testoide o piuttosto vice universa, per non riferirmi che ad uno – quarto: Se non c’è l’essere necessario, di certo la madre dell’invenzione, come disse Voltaire, per non citare Darwin diverso dall’origine dello specioso – per riassumere: Super, sia naturale che stizioso, sessuale dunque cogito er go-go a volte, come disse Descartes, e chi siamo noi? Grazie.)

La sensazione che venga suggerito qualcosa (al pari del recondito senso del sogno che si dissipa al risveglio ma resta come confusa traccia mnemonica) pur nel turbinio sonoro quasi dissacratorio, è confortata dall’estrema cura formale con cui sono costruite queste poche righe: la disposizione delle parti ricalca gli stilemi delle rigorose dimostrazioni filosofiche ed è, invero, un buon esempio di efficacia retorica; il ritmo giambico prevalente aggiunge al tono argomentativo una particolare musicalità poetica che favorisce quella che S. T. Coleridge definì “la deliberata sospensione dell’incredulità”: i vocaboli, spezzati, distorti, ma riconoscibili, mantengono l’aura da dissertazione metafisica, e insieme conducono lo spettatore/lettore alle soglie di una parola sospesa sul silenzio. (Secondo Marius Schneider, insuperato etnomusicologo del secolo scorso, il ritmo fonde idee ed oggetti, formando nell’individuo un insieme semi-cosciente linguisticamente inesprimibile, ma simbolicamente dotato di senso; il ritmo “raggruma e comprime gli elementi dati e li confonde per rifonderli.” Il lettore interessato può consultare i saggi di Il significato della musica, Milano, Rusconi, 1970 sgg.)

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Nel passo di Stoppard affiorano, appena stravolti, l’uomo, Dio, gli spazi interstellari, gli acidi nucleici e i testicoli (etimologicamente, testimoni della virilità); si rimanda a Voltaire, a Darwin, a Cartesio. Chi parla salta, come gli acrobati evocati dal titolo della commedia, su tutto ciò che si può dire e che balugina nell’esuberante audacia dei funambolismi che non conoscono limite. Ne nasce un magma in cui l’origine delle specie diventa speciosa e il cogito cartesiano si sfrangia in un balbettio confuso; l’etere diviene la cassa di risonanza di tutte le voci immaginabili.

A questo punto ogni proposito comunicativo si perderebbe e resterebbe soltanto rumore, per quanto risolto in una certa armonia. Dopo avere generato un possibile brivido intellettuale, anche questi suoni perderebbero la loro potenza evocativa. Ma la domanda che chiude il passo (“and who are we?” – chi siamo?) riporta d’improvviso in scena il tema dell’uomo e del suo destino all’interno di questo mondo in esplosione, riagganciandosi al titolo dell’atteso intervento filosofico. La questione esistenziale è reintrodotta nel momento in cui la tensione linguistica ha creato il massimo della scollatura con il mondo ordinario: proprio quando il soggetto è in equilibrio precario sul bordo sdrucciolevole del linguaggio, divertito ma inquieto al limitare dell’ignoto, si fa risentire inaspettatamente la domanda essenziale, che risuona più profonda. E’ ormai insoddisfacente ogni risposta che si limiti a riordinare le strutture grammaticali ordinarie, ma neppure la lacerazione del tessuto linguistico ha fatto emergere l’inaudita essenza: il lettore/spettatore ora desidera una risposta che sta oltre l’esperienza profana, avverte la malia dell’ineffabile.

L’arte nonsense conferma che esiste uno stretto legame tra l’esperienza cruda del linguaggio e l’evidenza sconcertante del distacco da sé: una forza decisa ma gradita fa irruzione nell’interiorità e la invita fuori di sé, verso il vuoto che lo smembramento del linguaggio dischiude. E’ un momento gravido di conseguenze, come il primo passo di una iniziazione spirituale. Acquistano, così, una valenza nuova le parole che Alice pronuncia dopo la lettura della funambolica poesia Jabberwocky in Oltre lo specchio: “Somehow it seems to fill my head with ideas – Mi pare proprio che mi riempia la testa di idee.” La folle esuberanza del nonsense ha fatto fare alla mente un passo imprevisto: ora è possibile suggerire qualche parallelo con le esperienze religiose più esoteriche.

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