Don DeLillo, II

Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri

Don DeLillo, II

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(Underworld)

Riprendo il discorso, interrotto al termine dell’articolo precedente per motivi di spazio, su Underworld, avvertendo il benevolo lettore che si parlerà, in questo caso, dei meriti e delle sorprese di un romanzo “che contiene moltitudini,” secondo l’osservazione di Michael Ondaatje, il romanziere singalese, naturalizzato canadese, noto internazionalmente per il notevole libro Il paziente inglese, 1992.

Underworld fu pubblicato nel 1997. Ecco l’inizio:

Parla nella tua lingua, americano, e c’è una luce nei suoi occhi che sembra di speranza.

E’ un giorno di scuola, certo, ma lui non è affatto vicino ad un’aula. Vuole essere qui, in piedi nell’ombra di questa grossa struttura arrugginita, ed è difficile dargli torto – questa metropoli di acciaio e cemento e vernice che si sfalda ed erba rasata e pacchetti di Chesterfield obliqui sui cartelloni pubblicitari, un paio di sigarette che sporgono.

Non è bene riferire della trama di un romanzo: un riassunto, anche soltanto un accenno, rischia di rovinare la sorpresa e il piacere che il lettore si ripromette di assaporare pagina dopo pagina. Mi limito ad evocare, a guisa di ulteriore invito alla lettura, dopo quanto è stato accennato nella prima parte di questo intervento, l’atmosfera magica del primo capitolo del libro, intitolato “Il trionfo della morte”, in cui torna a vivere, con tutta la potenza delle emozioni che la prosa di DeLillo sa modulare, la partita di baseball forse più famosa, sicuramente la più leggendaria, della storia sportiva americana: l’incontro tra i Giants e i Dodgers a New York City, che ebbe luogo al Polo Grounds il 3 ottobre 1951, lo stesso giorno in cui l’unione Sovietica fece esplodere la sua prima bomba atomica. La palla da baseball che, colpita con forza straordinaria da Bobby Thompson su lancio di Ralph Branca, finì, fermando per un attimo il tempo e il respiro, tra gli spettatori, e regalò lo scudetto ai Giants, si carica, sorprendentemente, di rilevanza sociale e simbolica e psicologica e strutturale tale nel corso della narrazione, da fare esclamare, “giù il cappello!” Il colpo che fece il giro del mondo (The shot heard round the world) dà inizio al vasto romanzo e ne diviene un tema ricorrente che ritma tutta la storia. Da subito impariamo a scorgere che le passioni e le speranze del singolo spettatore, e quindi anche del singolo lettore, sono in sotterranea, misteriosa, inquietante relazione con forze ed episodi che sembrano ignorarlo ma che lo contengono, e che, nel corso degli anni, diverranno chiare in espressioni come “guerra fredda”e “catastrofe nucleare”. In un sofisticato equilibrio, frutto del gioco delle interruzioni della successione temporale del racconto, la storia, o forse meglio, le storie raccontate mostrano il volto vero e inquietante di quegli anni con più evidenza di quanto non riescano a fare spesso i nostri occhi. Ecco le atmosfere delle vite familiari ormai scomparse, che si muovono tra oggetti che molti di noi ricordano ancora come presenze quotidiane della nostra infanzia; ecco le risposte degli artisti alle minacce della guerra e del consumismo più efferato; ecco all’opera la mente confusa e inquietante di uno psicopatico assassino seriale; ecco le gallerie della metropolitana di New York con i suoi personaggi aberranti e i ragazzi che si votano ai graffiti; ecco le sorprendenti figure di un gesuita e di due suore che non vogliono arrendersi al degrado.

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(Uno dei tanti taccuini tenuti da Don DeLillo per il romanzo Underworld.)

Un tema, di particolare rilevanza, mi ha affascinato in modo continuo, suggerendo spunti di riflessione: è legato al modo in cui la nostra civiltà di iper-industrializzazione e iper-produttività possa o sappia gestire l’immensa quantità di rifiuti che si accumulano giornalmente. Nick Shay, il protagonista del romanzo, lavora per una grande compagnia che progetta e gestisce il complesso sistema del trattamento di tutti i prodotti che noi gettiamo nella spazzatura: scarti organici, indumenti, pneumatici, rottami d’auto, plastiche, liquami, scorie tossiche, fughe radioattive. Una città produce tonnellate di lordura ogni giorno. Quanta ne producono tutte le città? Dove, come smaltire questa pestifera, tumorale escrescenza? Le quantità sgomentano, e siamo tutti coinvolti e responsabili. Un personaggio del libro, che fa una breve apparizione in qualità di esperto, ad un certo punto avanza una osservazione sconvolgente: le civiltà, dagli albori della storia, non nacquero in seguito alle speculazioni dei filosofi o agli atti epocali degli eroi; le civiltà sorsero dai rifiuti, come risposta, cioè difesa, alla loro crescente e inarrestabile invadenza in ogni nucleo umano.

Può capitarti, lettore, muovendoti in auto nella intricata rete delle grandi arterie di comunicazione che circondano una metropoli, mai prive di veicoli che sono attratti o espulsi dal centro urbano, di sbagliare un’uscita, e di trovarti infine in un angolo di terra deserto e squallido, quasi da brivido. E’ proprio quello che succede ad un personaggio di Underworld. Non sai bene dove sei finito, ma esci dall’auto e osservi il tramonto, se quella è l’ora della tua disavventura, senza lasciarti vincere dal panico. Non c’è proprio nessuno, è vero, ma c’è abbastanza benzina nel serbatoio, potrai in breve riprendere la corsa. Odi il rumore del traffico in lontananza, segui il contorno noto della città là in fondo. Poi il tuo sguardo è attirato, come fosse all’opera una calamita, da una gigantesca collina che cresce a pochi chilometri di distanza dalle case degli uomini. Alcune sagome, poco identificabili da questo punto di osservazione, salgono e scendono lungo i suoi pendii. Le tue conoscenze geografiche non ti danno conto di rilievi nella zona. Infine comprendi: quella è, fuori di metafora, la montagna dei rifiuti di cui la città si libera quotidianamente, e che personale altamente qualificato scarica e ricopre di terra e tiene sotto controllo scavando canali di drenaggio. Sono anche i tuoi rifiuti, lettore, è l’aspetto scomodo della tua vita, quello che non vuoi contemplare, ma non per questo è inesistente. E’ lì, davanti a te.

E’ solo uno dei temi di questo grosso libro, eppure è già più che sufficiente per riflessioni e pratiche nuove nelle nostre giornate. Non è più il tempo, per nessuno di noi, di giocare alle tre scimmiette, quella che si copre gli occhi, quella che si tura le orecchie, quella che si tappa la bocca.

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(Bobby Thompson ha appena colpito la palla del suo leggendario “home run”.)

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