Christopher Marlowe

Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri

Christopher Marlowe

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(1564 – 1593)

La vita di Christopher Marlowe, il drammaturgo inglese più dotato tra quanti operarono prima di William Shakespeare, è ricca di ombre sinistre e di luci altrettanto inquietanti: l’aspetto grammaticale del verbo che si nomina “incoativo”, che esprime l’inizio di un’azione senza alludere al suo sviluppo e alla sua conclusione, pare dominare nell’avventura artistica ed esistenziale di questa personalità straordinaria che, pur avendo lasciato opere memorabili dietro di sé, brilla piuttosto per frammenti di splendore anche abbagliante, circondati da aria spesso fosca, greve, addirittura cattiva. Il fascino dell’oro zecchino e il modesto baluginare dell’ottone stanno fianco a fianco in tanti suoi versi.

Nacque nella cittadina di Canterbury, resa immortale dal capolavoro di Geoffrey Chaucer, nello stesso anno in cui sorse alla luce il Cigno di Stratford. Il padre era calzolaio. La sua intelligenza fuori del comune, tutt’uno con la sua forza creativa naturale e contagiosa, gli valsero una borsa di studio per Cambridge. Dopo qualche anno dedicato agli studi in quel prestigioso centro universitario, qualcosa accadde che lo mise in contrasto con le autorità accademiche, così che invece di diventare ministro della chiesa anglicana, come tutti si aspettavano, lasciò Cambridge nel 1587 e intraprese la carriera teatrale a Londra. (Forse è vero che nella storia opera la legge dell’eterno ritorno: molti anni dopo, infatti, una simile disavventura coinvolse un altro ribelle della letteratura inglese. Percy Bisshe Shelley venne espulso da Oxford per avere rifiutato di spiegare agli amministratori dell’università la sua posizione in merito alla pubblicazione di un opuscolo intitolato Sulla necessità dell’ateismo, apparso anonimo ma chiaramente frutto delle elucubrazioni del giovane e irrequieto Shelley.) A Londra le opere di Christopher Marlowe si rivelarono di grande successo. Le due tragedie dedicate alla figura di Tamerlano, inarrestabile conquistatore di imperi come Alessandro Magno e Attila e Genghis Khan, attraevano un pubblico crescente. In breve furono seguite dai drammi del Dottor Faustus, di Barabba, l’Ebreo di Malta, del massacro di Parigi che occorse nell’infame notte di San Bartolomeo del 1572, in cui gli ugonotti furono sterminati, del re inglese Enrico II, che finì la sua vita nel castello di Berkeley, probabilmente assassinato in seguito a congiure di palazzo.

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(Faustus, Richard Burton, evoca Elena di Troia, Elizabeth Taylor.)

Sembrava che il brillante giovane fosse destinato alla gloria del primato nel mondo teatrale di lingua inglese, ma la sera del 30 maggio 1593, nella taverna gestita da una signora già vedova, Eleanor Bull, a Deptford, Christopher Marlowe fu vittima del pugnale di Ingram Friser. Questi fu poi prosciolto perché l’inchiesta concluse che aveva agito per legittima difesa: asserì infatti che il drammaturgo lo aveva aggredito in seguito ad una banale lite relativa al conto da pagare. Già pochi giorni dopo la sua morte (che produsse sgomento nel mondo degli attori, tra i quali era lo stesso William Shakespeare, che a quell’ingegno educato a Cambridge aveva guardato con ammirazione, da lui imparando le tecniche più raffinate per costruire personaggi ed intrecci) iniziarono a circolare voci sulla presunta vita segreta del genio di Canterbury: si disse che molte volte aveva dichiarato, vantandosi, di essere ateo, cercando addirittura di fare proseliti; che aveva contatti con i servizi segreti e forse era divenuto una presenza troppo ingombrante per personaggi altolocati; che era di certo omosessuale, anche se l’unica prova era che l’omosessualità gioca un certo ruolo in tre delle sue opere, tra cui anche il poemetto in decasillabi sciolti Ero e Leandro (lasciato incompiuto a seguito della morte improvvisa e portato poi a termine dal contemporaneo George Chapman, drammaturgo e, insieme, il più grande traduttore di Omero in lingua inglese), che pure tratta del tragico amore tra un giovane, Leandro, ed una fanciulla, Ero, divisi dall’Ellesponto. Le vite che si consumano al fuoco della ribellione e della creatività, del disordine che pare preludere ad una fine acerba, da sempre attraggono l’interesse non solo degli addetti ai lavori. La morte violenta che stronca l’ardore giovanile (molti lo dimenticano nello scorrere uguale della vita adulta), fa di tante ombre del passato figure di culto: così è accaduto con Percy Bisshe Shelley, sopra ricordato; la stessa aura aleggia attorno al volto scarmigliato di Ernesto Che Guevara, riprodotto in tante fotografie.

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(John Douglas Thompson nelle vesti di Tamerlano che costringe gli antichi re a tirare il suo carro. Off Broadway, 2014.)

Christopher Marlowe seppe dare vita a personaggi che avrebbero potuto irrigidirsi nei facili tratti della convenzione. Il barbaro Tamerlano è ricreato in due tragedie che, pur nel susseguirsi di scene di valore diseguale, propongono sul palcoscenico un uomo, non un tipo. Dopo battaglie e conquiste e atti di spietata crudeltà che fecero tremare il mondo, così si congeda dalla vita:

Fanciulli, addio, e voi, addio, amici!

Trema questo corpo e l’anima piange

Sapendo che ora Tamerlano il Grande,

Flagello di Dio, deve morire.

Il grande monologo finale del Dottor Faustus, accecato dalla sua titanica ansia di conoscenza, tocca vertici di intensità poetica rara ora che il suo errore esistenziale si palesa senza possibilità di remissione, e il povero dottore è costretto a contemplare, sadicamente torturato dal demonio, le pene eterne che lo attendono per avere firmato il patto con Mefistofele. In una delle aperture più singolari nella storia del teatro, il personaggio di Barabba, l’Ebreo di Malta, è introdotto da Machiavelli. “Crede il mondo che Machiavelli è morto,” inizia il prologo alla tragedia, ma la sua anima è invece volata oltre le Alpi ed ora parla dal palcoscenico per presentare all’attenzione del pubblico l’ebreo che morbosamente brama la ricchezza senza limiti e trama inaudite vendette contro i cristiani. Il raffinato pensiero politico del grande segretario fiorentino è sicuramente tradito in questa metamorfosi immaginata da Christopher Marlowe. “Nella fantasia popolare,” annotava Mario Praz nel suo articolo “Machiavelli in Inghilterra”, in Studi e svaghi inglesi, “il nome di Machiavelli andò confuso con il già corrente Old Nick, un nomignolo del diavolo, e i termini Machiavelli e Satana divennero a tal segno equivalenti, che mentre in principio le astuzie attribuite a Machiavelli eran chiamate diaboliche, più tardi le astuzie del diavolo furon dette ‘machiavelliche’.” La scelta stilistica di Marlowe fa però nascere una nuova figura che incarna una delle passioni elementari, tutte fortissime e molte inconfessabili, che agli uomini non sono ignote. Gli spazi del teatro non restavano vuoti nel susseguirsi delle rappresentazioni.

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(F. Murray Abraham nei panni di Barabba, New York, 2007)

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