Primo Levi

Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri

Primo Levi

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(1919 – 1987)

Dall’esperienza della lettura di Se questo è un uomo di Primo Levi, si esce con un crudo nodo di immagini violente compresse nella mente e, sembra, nella zona tra il cuore e lo stomaco. Il groviglio rimane lì, disturba il sonno e i sogni, talvolta pare di sentire, nel buio della notte, la voce di un aguzzino del campo che impone di alzarsi nell’aria gelida, di andare ad ammassarsi, mal protetti da una logora camicia di cotone, nella piazza là fuori, a prepararsi per un lavoro che neppure le bestie – chiusi nella propria disperazione che va inghiottita insieme con la fetida zuppa se non si vuole soccombere nel nuovo giorno, e nel prossimo, e nel successivo ancora, all’ultima volontà di sterminio. Anche se viene da chiedersi perché continuare in quelle condizioni e quale è la forza, non più fisica ormai, né psichica o intellettuale, che sorregge durante le ore di veglia o di franto riposo, e perché, secondo giustizia, anch’essa non si spezzi.

La risposta sta già nelle domande, che sono comunque l’espressione della volontà di non soccombere. La risposta sta quindi in questo libro che è la sofferta rivisitazione di tutte quelle ore e di ciò che vi accadde nel campo di lavoro di Auschwitz (Arbeit Macht Frei), in cui Primo Levi si trovò improvvisamente gettato dopo che una imprevista retata della Milizia fascista in cerca di altri partigiani per caso lo aveva arrestato il 13 dicembre 1943.

Si giunge a capire compiutamente il titolo verso la fine del libro. Forse, ignari e ingenui,si parte convinti che quella strana domanda indiretta si riferisca agli oppressori che scientificamente, con meccanica indifferenza, organizzarono il massacro di un’intera razza del nostro pianeta. L’immagine di un insieme di automi perversamente dediti all’opera di annichilamento può ben giustificare il dubbio sulla loro umanità. No. La domanda si riferisce alle vittime di quella che passò alla storia con il pretestuoso nome di “soluzione finale”, cioè all’opera riuscita dei loro carnefici.

L’evidenza colpì Primo Levi una sera verso il Natale del 1944, allorché un detenuto fu impiccato nel campo per avere partecipato alla distruzione di uno dei crematoi dii Birkenau, fatto saltare con successo. Salendo al patibolo il condannato gridò: “Kamaraden, ich bin der Letze! –  Compagni, io sono l’ultimo!”. Annota l’autore: “Vorrei poter raccontare che fra di noi, gregge abietto, una voce si fosse levata, un mormorio. Un segno di assenso. Ma nulla vi è avvenuto. Siamo rimasti in piedi, curvi e grigi, a capo chino, e non ci siamo scoperta la testa che quando il tedesco ce l’ha ordinato … Distruggere l’uomo è difficile, quasi quanto crearlo: non è stato agevole, non è stato breve, ma ci siete riusciti, tedeschi.”

Così rammenta Primo Levi il punto disumano che ha toccato, impermeabile ad ogni affetto ormai, con tutta la sua persona, fisica psicologica morale, straziata e irriconoscibile, E nel riferire, con il candore e l’accuratezza dello scienziato, quell’orrore, professa l’esatto opposto: sono gli altri, quelli che non aveva la forza di giudicare, neppure alzando le sopracciglia, i non-uomini; sono quelli che riempivano le camere a gas e ne manovravano i comandi, sono quelli per cui fare le selezioni dei candidati alla morte era mansione ordinaria, incombenza forse un poco monotona che la coltre della ripetitività ottundeva. Non è retorica, questa. E’ una conclusione di pensiero che non può non essere raggiunta, inevitabile e corretta come il risultato di un’analisi chimica ben condotta. Se le parole hanno un valore, di quel branco di torpidi aguzzini convinti di svolgere un compito dovuto al Terzo Reich, non si può predicare l’umanità. Anni dopo, in una situazione geograficamente molto diversa ma purtroppo antropologicamente assai simile, Aleksandr Isaevic Solženicyn, prigioniero del GULag, così intese ed espresse la natura dei guardiani dei lager sovietici: “E’ la loro compagine che costituisce per noi il volto ottuso e inespressivo, inflessibile e inaccessibile ad alcun pensiero, del GULag.”

Primo Levi continuò a narrare la sua esperienza nel libro La tregua, del 1962, e cercò di trasfigurarla – ferita sempre pulsante – nel romanzo Se non ora, quando? (1982), un’epopea di ebrei partigiani dell’Europa orientale. Le vicende della guerra mettono in contatto le brigate russe e polacche, che trovano nella comune radice ebraica la sorgente del possibile riscatto nella società e nella storia. La narrazione segue le battaglie e il tragico pellegrinaggio dalle distese della Russia Bianca alle terre di Polonia e Germania, fino a Milano, il luogo dove finalmente si può ricominciare a coltivare la speranza di vivere. Vi è un passaggio in quest’opera che dimostra quanto Primo Levi sentisse l’essenza e la forza della condizione umana. E’ ricreata una situazione disperata: pochi ebrei cercano di tenere testa ad un gruppo corazzato tedesco. Un personaggio urla in mezzo al fumo e al fracasso: “Spara tutto adesso. Senza risparmio. Stiamo combattendo per tre righe nei libri di storia.”

Non ci sono aspettative trionfalistiche in queste parole, né enfasi retoriche. C’è la dignità e la forza e la convinzione di non cedere, perché così deve essere. E’ un tratto tipicamente umano, che Primo Levi non riuscì a perdere neppure nel campo di lavoro nazista, anche se il tormento di quell’esperienza infine lo spinse nel vuoto di una tromba di scale, nell’edificio torinese dove aveva abitato.

Possa riposare in pace.

*

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Nella grande distesa del campo di sterminio di Birkenau, poco lontano da quello di Auschwitz, il vento soffia senza impedimento alcuno. Sui binari è ferma una carrozza come quella dei treni blindati che qui giungevano da ogni punto cardinale. Dentro, abbrutiti dal viaggio e dall’aria esiziale emessa da tutti quei corpi ammassati in modo innaturale, le vittime designate di una nuova carneficina avrebbero di li a poco udito l’ordine di scendere. Qualcuno avrà sognato, in quel momento, di spiccare un salto dal vagone al suolo e di rimbalzare più in alto e più in là, poi di ripetere un altro salto, più alto e più lungo del primo, e infine un balzo che avrebbe vinto la forza di gravità e l’avrebbe portato al di là della recinzione di filo spinato, lontano sempre più lontano, oltre il raggio d’azione delle urla dei secondini e dei cani e delle pallottole. Allora avrebbe sorriso. Questo sognatore non ha nome né tratti definiti, né qualità particolari, ma non fatichiamo a riconoscerlo, perché, ci giureremmo, è uno di noi. Se questo è un uomo.

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