Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri
Giovanni Testori
(1923 – 1993)
Per dare un’etichetta allo stile narrativo delle prime opere di Giovanni Testori è stato spesso usato l’aggettivo “espressionista”. I racconti de Il ponte della Ghisolfa e di La Gilda del Mac Mahon, però, non appaiono caratterizzati dalla grottesca esasperazione dei volti che divengono smorfie e dalla violenta intensità del colore che esplode sulle tele di Kirchner, di Nolde, di Dix, di Grosz (per citare qualche nome del cosiddetto movimento espressionista) e che sono funzionali alla feroce volontà di critica e protesta sociale che animava quegli artisti. Le pagine di Testori ci presentano i personaggi piuttosto umili e ordinari di Milano e della sua provincia nel primo decennio del secondo dopoguerra, che subivano o sfidavano la vita dal loro angusto angolo di comparse con poca o nulla gloria di un’epoca che sembrava promettere un benessere senza fine: operai piccoli imprenditori prostitute baristi faccendieri alla ricerca di un posto al sole, almeno per qualche minuto, nella ripetitiva desolazione delle ore tra la fabbrica e la strada, tra la Bovisa e Porta Ticinese e Roserio e l’Olona, tra lo stridio di qualche Lambretta e il rombo più prestigioso di una Guzzi fiammante, che si sovrappongono agli echi delle canzoni del forestiero Frank Sinatra e della nostrana Wanda Osiris. Completano i sogni velleitari di questa periferia le scontate trame dei fotoromanzi di “Bolero Film”. La sensibilità artistica di Giovanni Testori vede e comprende e narra questa povera umanità con mano sicura e cuore non indifferente, proprio come accadde a Pier Paolo Pasolini di immergersi nelle più crudeli borgate romane per riemergere con i romanzi Ragazzi di vita e Una vita violenta. Non è “espressionismo” questo, è piuttosto realismo sorretto da chiara ideologia e da struggente passione. Circa vent’anni dopo la pubblicazione de Il ponte della Ghisolfa, Alberto Arbasino (altra voce non secondaria della narrativa italiana) finiva il suo libro-resoconto Certi romanzi (“diario di idee, quaderno di lavoro, manuale di problemi tecnico-letterari, regesto di esplorazioni, repertorio di nomi, titoli, citazioni variopinte: quasi una cassetta d’attrezzi o di pronto soccorso per tutta una nuova generazione creativa”) inserendo, tra l’altro, uno stralcio di un dialogo-intervista con Testori. Chiedeva Arbasino, – Gianni Testori, tu cosa pensi dell’Italia del boom? Rispondeva Testori, – Ammesso e non concesso che questo benessere esista veramente, potrebbe anche soddisfarmi, non sentissi sopra il tuono, il temporale che arriva, insomma “il marcio in Danimarca,” come dice l’Amleto. Sono gli ultimi fuochi d’artificio, gli ultimi lampi, queste finte luci della fiducia nella scienza, nel dominio e nell’obiettività assoluta della ragione. Incombono, sulla vita dell’uomo, le ombre dell’irrazionale.
La fascinazione di Testori per i suoi personaggi e per le loro vicende è, senz’altro, la cura artistica dell’artefice per il proprio materiale compositivo, è l’attenzione che non tollera distrazioni per la scelta, sempre, della parola insostituibile e dell’accento e del ritmo autentici e, contemporaneamente, è la partecipazione emotiva ai destini che la trama della vita intreccia e spezza secondo una logica che sempre sfugge a quegli uomini e a quelle donne che, più che muoversi sempre sono mossi da forze esterne a sé, sogni illusioni rammarichi rivalse. Si agitano sotto gli occhi del lettore, le gesta di un promettente campione della bicicletta che tuttora lavora ad una pompa di benzina, tra il traffico dell’autostrada e i ritagli della Gazzetta dello Sport con le foto del calciatore Benito Lorenzi soprannominato “il Veleno”; le inquietudini del ragazzo che si chiede cosa sia la vita, se sia solo “nascere com’era nato, lavorare come gli toccava lavorare, tossire, tirar per tutte le strade tricicli carichi d’acciaio, latta e zinco”; la procace vitalità del giovane apprendista al bar che eccita la fantasia dello sconosciuto avventore che organizza incontri osceni nel suo appartamento; la ragazza sedotta dal bell’imbusto del quartiere che sarà costretta ad uccidere la creatura che già porta in grembo. Su tutti questi personaggi aleggia l’atmosfera di una Milano che non è più, mescolanza del profumo di qualche albero di periferia in primavera e di zaffate di benzina quando un’auto accelera immettendosi nel traffico, fervore di ciò che è nuovo ed eccitante e stasi di ciò che è ripetitivo e ammorbante. Nasce talvolta il momento magico, come il seguente quadro di una domenica sera al termine del divertimento:
Ormai era tardi: fuori dalle case la più parte dei crocchi s’eran già sciolti; gli altri cominciavano a diradarsi sia che fossero di ragazzi e ragazze, sia che solo di queste o solo di quelli. Tra Roserio e Vialba la domenica moriva come ogni altra settimana; la dubbiosa pienezza che causano il divertimento e il riposo quando son sul punto di finire dava alle persone, ai loro passi, alle loro conversazioni, al saettar delle moto e degli scooter, un senso doloroso di tristezza come se in ognuno affiorasse tutto il peso dei sei giorni ormai imminenti di lavoro. (dal racconto “Andiamo a Rescaldina”)
Tra i gioielli delle due raccolte sono, senza dubbio, “Il dio di Roserio” e “La Gilda del Mac Mahon”. Nel primo (riscrittura del romanzo dallo stesso titolo, pubblicato da Testori nel 1954) è narrata la storia di Dante Pessina, che si è costruito la fama di ciclista imbattibile nella categoria dei dilettanti. E’ tormentato dal rimorso per il fallo che ha causato la caduta e la menomazione del suo gregario, ma reagisce con rabbia e ostentato orgoglio e torna a vincere, perché la vita è la sopravvivenza del più forte e del più furbo, e anche se il protagonista non sa formularsi questa legge con le giuste parole, la sa però mettere in pratica. Giovanni Testori dà briglia sciolta alla sua prosa plastica e ricca, e sa rendere viva e pulsante la gara ciclistica del trionfo del Pessina quasi pedalata dopo pedalata, in un esilarante scorrere di esuberanza stilistica che avvince ed affascina:
Nello spostarsi alternato da destra a sinistra e da sinistra a destra i metri venivano ingoiati dalle ruote sibilanti; il peso del corpo sembrava cader ogni volta dentro la parete della folla, ma sul punto di piombarvi un nuovo strappo lo rimetteva diritto, poi di nuovo nella parte opposta, dove si ripeteva per la folla raccolta in quel punto la stessa, angosciosa paura di vederselo piombar nel mezzo.
Dai racconti di Il ponte della Ghisolfa, Luchino Visconti ebbe l’idea per il suo film Rocco e i suoi fratelli cui lavorò con lo stesso Giovanni Testori.
“La Gilda del Mac Mahon” è anch’esso uno dei più bei racconti di Testori e sicuramente uno dei più compiuti nel panorama letterario del Novecento italiano. La protagonista, Rita Boniardi, è soprannominata Gilda perché ricorda un personaggio interpretato sullo schermo dalla rossa Rita Hayworth, e gode della sua fama di bellona della strada vendendo il suo corpo per infatuazione e per sensualità in un intreccio che conosce le note del drammatico e del grottesco e del patetico. La pagina di Testori ferve e freme nell’alternarsi delle descrizioni e del gioco del discorso diretto liberamente riportato (grazie al quale si ricreano i moti e i pensieri dei personaggi con la perfezione d’autore che essi non potrebbero avere) con il discorso diretto vero e proprio, che nella storia inserisce il sapore dell’autenticità e del comico.
Uno scrittore importante, Giovanni Testori, che profuse il proprio talento nella narrativa, nella poesia, nel teatro, nella critica d’arte, nella pittura.