Fëdor Dostoevskij

Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri

Fëdor Dostoevskij

dostoevskij

(1821 – 1881)

Il nome dello scrittore Fëdor Dostoevskij è di quelli che incutono riverenza. Immaginare di incontrarlo nei Campi Elisi, ci porta a credere che avvertiremmo anche noi ciò che provò il giovane Socrate allorché si trovò faccia a faccia con il sapiente Parmenide, in visita, nella sua età avanzata ed in compagnia del discepolo Zenone, ad Atene: Platone racconta che Socrate giovinetto si sentì invaso dal timore che nasce al cospetto di ciò che è grande, l’aura che spirava dal saggio di Elea era numinosa, il suo aspetto, l’adulto Socrate ricordava ancora molti anni dopo, era “venerando e insieme terribile”. Anche nella cerchia dei grandi cui senz’altro appartiene, questo gigante della narrativa mondiale proietta la sua ombra grave e inquietante, con la sua espressione concentrata ed enigmatica, talvolta assente talaltra accesa da improvvisi moti dell’animo che non possono non sconcertare chi ne è testimone; sbalzi di tensione intellettuale di altissima energia, procedenti dalle intuizioni più profonde sulla natura della coscienza e dell’inconscio, si mescolano con le note stridule della irrilevanza e della follia e della stupidità, che affiorano imprevedibili in tanti comportamenti degli uomini e delle donne dei suoi libri. 

Quante volte, leggendo i capolavori di Dostoevskij, abbiamo posato momentaneamente il libro, colpiti dalla inconsequenzialità gestuale e affettiva di un personaggio, che nel giro di poche righe ci ha suggerito la cupa atmosfera della tragedia, e, senza soluzione di continuità, la livida aria grottesca che connota un pagliaccio, e siamo rimasti turbati, sbigottiti. Questo avviene in compagnia dei personaggi principali come il giovane Raskòl’nikov, prigioniero del suo sogno di genio e grandezza e dell’incubo del suo delitto; e con quelli che non hanno un ruolo di assoluto primo piano, come il padre Zòsima, nei Fratelli Karamàzov, ai cui resti mortali, inaspettatamente, accade di emanare sgradevole fetore anche prima di quanto generalmente accade quando un corpo è abbandonato dalla linfa della vita: il sant’uomo, motteggiano i conoscenti di Alëša Karamàzov, che ne fu devoto allievo, non era poi così puro se la decomposizione è iniziata con tanta evidente celerità.

La figura più emblematica di questa unione degli opposti è il principe Myškin, il perno strutturale e narrativo intorno al quale ruota la creazione forse più inaudita di Dostoevskij, L’idiota. Il principe è la personificazione della categoria dell’innocenza, tanto che non si fa fatica ad immaginarlo compagno dei tanti bimbi che popolano le pagine dei Canti dell’innocenza di William Blake; nel mondo degli adulti intriganti ipocriti malvagi, egli è oggetto di scherno e di sospetto, di paternalistica compassione e di sprezzo impietoso. Negli appunti preparatori al romanzo, che fu terminato a Firenze nel 1868 (una targa su una facciata di una casa non lontana da Palazzo Pitti ricorda l’evento), Dostoevskij annotò: “Timore. Sottomissione. Umiltà. NB: in ogni momento si pone la domanda: ‘Ho ragione io o sono loro che hanno ragione?’ NB: suo modo di considerare il mondo: perdona tutto, trova una ragione a tutto, non conosce peccato imperdonabile e scusa tutto. E’ convinto in se stesso di essere un idiota.” Molteplici, come in tutte le grandi realizzazioni artistiche, sono i temi di interesse del romanzo. Nel principe Myškin sono tante caratteristiche, nel bene e nel male, dello stesso Dostoevskij, come la passione e il talento per la calligrafia; l’internamento in una casa di cura per “l’idiota” e in un bagno penale per l’autore, a seguito di una condanna per attività sovversive; la tara dell’epilessia, analizzata nel lento, labirintico formarsi e nell’improvviso esplodere dell’attacco in pagine di puro genio narrativo; le impressionanti considerazioni morbose che Dostoevskij e Myškin accumulano una sull’altra, in un concitato processo di auto-identificazione, sugli stati psichici di un condannato a morte negli ultimi istanti della sua vita.

l'idiota dostoevskij e candela

Credo che il pregio saliente dell’opera sia la straordinaria rappresentazione della diversificata tipologia umana che Dostoevskij è in grado di offrire al lettore nei tanti personaggi che fanno coro intorno al protagonista: dai membri della famiglia Epančin a quelli dell’altra indimenticabile famiglia Ivolgin; dall’equivoco strisciante Lebedev all’energumeno dissoluto e sentimentale Keller; all’instabile, sinistro Rogožin follemente innamorato della bella capricciosa Nastasja Filippovna, vittima e aguzzina allo stesso tempo, in armonia con la già discussa coniunctio oppositorum che è uno degli assi strutturali del libro.

Tra le pagine più pregnanti del romanzo è il capitolo 1 della parte IV, ove lo scrittore disserta a lungo dell’attività del romanziere e del ruolo di quella che si chiama “gente comune”, che, per definizione, non è possibile descrivere dal punto di vista privilegiato di una caratteristica che li riassuma con icastica efficacia proprio perché non sono dotati di nessuna peculiarità che li denoti: sono le vere, desolanti, persone “senza qualità”. Ma compito dello scrittore è di scegliere o immaginare e descrivere quanti più tipi la vita in società ci mette sotto gli occhi, e presentarli al più alto grado di veridicità. Per scavare nella natura intima di due personaggi di tale squallore (Gavril Ardalionovič e la sorella Varvara Ardalionovna Ptitzyna) Dostoevskij si chiede come renderli interessanti, dato che il loro tratto essenziale è proprio la loro immutabile volgarità. Entrambi sono condannati ad essere costantemente inghiottiti dalla banalità pur bramando, pieni di invidia impotente, di essere originali e indipendenti. Un romanzo privo di gente siffatta non sarebbe verosimile, poiché, invero, abbondano in ogni paese; l’autore sarebbe quindi colpevole di insufficienza artistica se li trascurasse. Dostoevskij dà un’ulteriore prova dell’acutezza del suo sguardo e del suo ingegno nel passo che cito qui sotto, che tutti siamo chiamati a meditare a lungo, perché, se anche rifiutiamo di pensare che parli di noi (l’osservazione a proposito della pagliuzza e della trave e dell’occhio è sempre assai significativa), pur tuttavia tratta di tanti a noi non ignoti. Lo dò nella traduzione di Rinaldo Küfferle:

Non c’è nulla di più increscioso che essere, per esempio, ricco, di buona famiglia, di aspetto avvenente, colto, intelligente, buono, perfino, ed essere nondimeno senza alcuna speciale attitudine, non possedere nessuna idea propria, nessuna bizzarria particolare, se non altro, essere, insomma, disperatamente “come tutti”. Si ha la ricchezza, ma non quella di un Rothschild; si appartiene a una famiglia nobile, ma che non si è mai distinta con qualche opera speciale; si ha un aspetto avvenente, ma insignificante; si ha una cultura notevole, ma non si sa in qual modo applicarla; si è intelligenti, ma non si hanno per nulla “idee proprie”; si possiede un cuore buono, ma senza generosità, e così via sotto tutti i rapporti. Gente simile è numerosissima al mondo, molto più numerosa di quanto si creda; si divide, come in generale tutto il genere umano, in due gruppi: gente limitata e gente con una certa intelligenza. I primi sono più fortunati. A una persona “comune” poco intelligente riesce facilissimo immaginarsi un essere poco comune e originale, e godersi la propria opinione senza la minima esitanza. A certe nostre signorine bastò tagliarsi i capelli, mettersi un paio di occhiali scuri e chiamarsi nichiliste, per essere immediatamente convinte di avere “principi propri”. A uno, basta notare nel proprio cuore la minima particella di un sentimento umano e universale per convincersi subito che nessuno sente come lui, e ch’egli è un pioniere del progresso mondiale. Basta a un altro accettare in buona fede un’idea altrui, oppure leggere una paginetta di checchessia, senza capo né coda, per immaginarsi subito che quelli letti o ascoltati siano pensieri suoi propri, nati nella sua mente. La sfacciataggine dell’ingenuità, se così è lecito esprimersi, giunge, in simili casi, all’incredibile; tutto ciò sembra impossibile: invece, nella vita, si incontra ad ogni passo.

Dostoevskij_1872

Fëdor Dostoevskij nel 1872

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