Stendhal, II

Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri

Henri Beyle, Stendhal, II

Stendhal

(1783 – 1842)

La curiosità intellettuale che ci spinge alla conoscenza e all’interpretazione del mondo , tanto più forte quanto più esso pare nascondersi nell’atto stesso di offrirsi ai nostri occhi sorpresi e come turbati, prese forma, in Stendhal, non solo in romanzi straordinari che sanno donare la felicità a chi vi dedica un poco del proprio tempo (dono preziosissimo), ma anche in opere autobiografiche nelle quali lo scrittore si propose di gettare un poco di luce sull’arcano che è, per ognuno di noi, la nostra vita singola. Iniziò a comporre i suoi Souvenirs d’égotisme (Ricordi di egotismo) nel 1832, e dal 1835 si dedicò alla Vie de Henry Brulard (Vita di Henry Brulard), per verificare se “facendo il mio esame di coscienza con la penna in mano, riuscirò a giungere a qualcosa di concreto (positif) e che resti vero a lungo (longtemps vrai) per me.” 

  souvenirs d'ego vie de brulard

Raccontare le proprie memorie, lasciare che episodi ed immagini del proprio passato anche lontano evochino personaggi e vicende in modo tale che la nostra mente adulta possa infine indagarli per dare un senso agli anni e alle cose, espone a rischi di interpretazione evidenti: può la mia mente di adesso comprendere e giustificare la mia mente di allora? Quanto ora ricordo sarà effettivamente accaduto o la memoria avrà aggiunto particolari che è plausibile siano avvenuti, ma di fatto sono costruzioni posteriori dettate forse da un poco di vanità, o da un desiderio di essere migliori, o da una buona fede comunque imperfetta? Stendhal era conscio del pericolo dei falsi ricordi e del disorientamento cui può condurre la concentrazione ossessiva sull’inevitabile quantità di je (io) e moi (me) che un’opera autobiografica necessariamente comporta, ma confessa in candide parole, nella Vita di Henri Brulard, “ io non pretendo affatto di scrivere una storia, piuttosto intendo semplicemente registrare i miei ricordi al fine di scoprire che uomo sono stato: sempliciotto o astuto (bête ou spirituel), pauroso o coraggioso, ecc. ecc. E’ la risposta al grande enigma: Gnothi seauton,”

Stendhal, che amava presentarsi celandosi dietro tanti nomi d’arte (nel precedente articolo di questa rubrica ho accennato all’origine del suo immortale nom de plume), è qui Henry Brulard. La scelta del nome è spiegata in un passo in cui splende il suo senso dell’umorismo, così raro e difficile da usare e sopportare quando siamo proprio noi il bersaglio dell’osservazione spiritosa. Evocando se stesso fantolino, Stendhal scrive: “Sembra che avessi una testa enorme, senza capelli, e che somigliassi al Padre Brulard, un monaco sagace, un buontempone che ebbe grande autorità nel suo convento, mio zio o prozio, che morì prima che io nascessi.”

La Vita di Henry Brulard riporta alla luce la città di Grenoble quando Stendhal era bambino, negli anni seguenti la Rivoluzione francese, un tempo di frenetiche esaltate speranze in cui il mondo sembrava dovesse rinascere dalle ceneri dell’antico regime, con la promessa altisonante dell’uguaglianza e della fraternità e dell’impero della ragione sulla terra. Viene rievocato l’opprimente perbenismo della casa paterna, la triplice tirannia che il padre, la terribile zia Séraphie e il cupo abate Raillane esercitarono sul giovinetto, dopo la prematura morte dell’adorata madre, a lungo rimpianta inconsolabilmente. Unica figura comprensiva e amata, il nonno materno. Momenti di sollievo nella serie di giornate opprimenti in cui rivive l’antica Grenoble, furono per il fanciullo la lettura del capolavoro di Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, e del poema cavalleresco di Ludovico Ariosto, Orlando Furioso: il profumo di libertà e di leggerezza che quei libri trasudano da ogni pagina, nutrì e consolò la fantasia del ragazzo. Gli anni del Terrore, allorché la Rivoluzione si alienò le simpatie di tanti intellettuali che l’avevano salutata con entusiasmo, paragonati alla sua sfortunata vicenda personale, furono, secondo Stendhal, piuttosto miti nella sua città natale e, aggiunge con audacia, “decisamente ragionevoli”.

La venerazione per le belle lettere fu accompagnata e completata dalla passione per la matematica, perché, intende lo scrittore adulto, la matematica è totalmente avulsa da ipocrisia e da indeterminatezza. Abbondano, nella Vita, osservazioni profonde e illuminanti sulla natura umana e sulle sue vicende e le sue difficili vie di sviluppo: personalmente sono stato folgorato da un passo in cui Stendhal riporta il suo lungo travaglio per spiegarsi perché, allorché si studia algebra, si è richiesti di operare secondo la regola rigida che meno per meno dà più ( – x – = +). Vedere come il giovane Beyle cercasse a lungo di intendere il motivo per cui una quantità negativa moltiplicata per altra quantità negativa generi una quantità positiva, mi ha fatto sentire in eletta compagnia. Nonostante la paziente spiegazione che un competente e appassionato docente di matematica mi donò qualche tempo addietro, la mia ragione ancora dubita: la scarsa dimestichezza con le scienze esatte è certamente ragione sufficiente per spiegare il mio stallo, ma per nulla al mondo rinuncerei alla compagnia di Stendhal.

brulard

(Schizzo autografo di Stendhal: vi si mostra il giovane Beyle durante una dimostrazione di matematica, a scuola.)

Recentemente, nel corso della visita al Musée Stendhal a Grenoble, ospitato nella casa del nonno materno dove il giovane Henri conobbe, come si è visto, soprattutto il sapore amaro della vita, ho avvertito l’emozione di entrare, letteralmente, nel libro di cui queste righe hanno parlato: ho percorso le stanze e osservato gli angoli in cui lo scrittore si mosse fanciullo, facili da riconoscere perché la pagina di Stendhal è corredata di numerosi schizzi e disegni dettati dalla memoria visiva del narratore, e tanti momenti del testo si sono rivestiti della tangibilità del mondo delle cose, che usualmente ci circonda e definisce le nostre giornate.

Nei Ricordi di egotismo, assai significativa e commovente è la pagina in cui l’autore fa cenno all’iscrizione tombale che volle per sé e a cui pose mano a Milano, nel 1820. Il disegno per mano dell’autore evoca una semplice lastra di marmo, uno scarno rettangolo, in cui sono scritte queste parole, in italiano: Errico Beyle, Milanese, visse, scrisse, amò. Quest’anima adorava Cimarosa, Mozart e Shakespeare. Morì di anni … il 18…  La data della morte, lasciata allora in bianco, ora si può leggere sulla sua tomba, a Parigi, nel cimitero ai piedi della collina di Montmartre.

stendhal 1841

(Ritratto di Stendhal, eseguito da Lehmann nel 1841, dopo che lo scrittore aveva sofferto il primo colpo apoplettico.)

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