Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri
Wolfgang A. Mozart
(1756 – 1791)
L’opera lirica Don Giovanni di Wolfgang Amadeus Mozart, rappresentata per la prima volta a Praga il 27 ottobre 1787, si concentra, rivestendoli di nuovo splendore, su alcuni episodi della carriera del libertino introdotto originariamente nella letteratura e nell’immaginario dell’Europa dalla commedia El burlador de Sevilla di Tirso de Molina (1584-1648), maestro del teatro del Siglo de oro spagnolo. L’opera mozartiana è offerta al pubblico come “dramma giocoso i due atti”: è assente l’aspetto didattico e moralizzante che aveva invece ispirato la serie pittorica intitolata La carriera del libertino (1732) di William Hogarth, che fu amico del romanziere inglese Henry Fielding. Al pari di tanti geniali creatori della civiltà letteraria europea a proprio agio con la categoria del comico – come Aristofane, Boccaccio, Chaucer, Ariosto, Rabelais, Cervantes, Balzac – Mozart contempla la complessità del mondo, accoglie con il suo sguardo fanciullesco e candido le sue miserie e i suoi splendori, e costruisce un’opera in cui palpita la vita con le sue contraddizioni, gli intrecci dei sentimenti e dei sensi, le tensioni tra le classi sociali. Quando Zerlina, Masetto, Leporello intonano le battute finali e cantano, a proposito di Don Giovanni che è stato da poco inghiottito dalle fiamme dell’inferno, Resti dunque quel birbon / con Proserpina e Pluton, il tono da tragedia che aleggiava sulla rappresentazione svapora nell’aria leggera dell’epilogo, in cui il senso di sollievo e di gioco e di danza paiono redimere tutte le soperchierie e tutte le sofferenze che segnano da sempre la vicenda dell’uomo su questo pianeta.
Mentre ancora le note, divenute onde sonore della memoria, cullano la nostra immaginazione percettiva, e l’attenzione, dopo che il sipario è calato, è tuttora assorta sui dettagli che uno dopo l’altro o a gruppi di due o tre insieme si presentano all’occhio della mente e rinnovano il piacere, così che a malapena vediamo ciò che ci circonda e poco ci cale delle azioni ordinarie che pure dobbiamo compiere, sorge il sospetto che Mozart avesse compreso l’arcano del velo di Maya, e che il riso di fronte allo spettacolo del mondo sorgesse in lui altrettanto naturale che sulle labbra dei maestri della conoscenza e della saggezza. Comprendiamo perché i grandi autori tragici della Grecia facevano seguire i drammi satireschi alle loro tragedie, perché Shakespeare affiancava ai suoi eroi tante figure comiche: il matto a re Lear, il becchino ad Amleto, il portiere a Macbeth, il buffone con il cesto di frutti a Cleopatra, Falstaff al giovane principe Harry. La varietà della vita non può essere contenuta nell’unica categoria poetica della tragedia, “mimesi di azione grave e compiuta,” secondo la definizione di Aristotele; nel flusso delle cose, come in quello di un fiume, un raggio di luce trasforma un riflesso livido in una pastosa festa cromatica, il gorgo ribollente delle acque fa capo, di lì a poco, ad una pozza tranquilla e sicura dove i fanciulli amano giocare.
Questa attitudine di libertà pur nel mezzo delle passioni, quasi olimpica imperturbabilità, ci investe fin dall’inizio di Don Giovanni. L’introduzione tra il lamentoso e l’indispettito di Leporello, servitore di Don Giovanni,
Notte e giorno faticar
Per chi nulla sa gradir;
Piova e vento sopportar,
Mangiar male e mal dormir…
Voglio fare il gentiluomo,
E non voglio più servir
è modulata sul movimento molto allegro creato da archi, flauti, oboi, fagotti, corni, ed è interrotta dall’ingresso di Donna Anna che cerca di arrestare Don Giovanni, il suo seduttore, giurando vendetta (Come furia disperata / Ti saprò perseguitar). Nel concitato episodio che segue, Don Giovanni uccide il Commendatore, padre della giovine; a Leporello che chiede a gran voce chi sia morto, Don Giovanni rispone, Che domanda da bestia! Il vecchio. Commenta Leporello, Bravo! Due imprese leggiadre: / Sforzar la figlia, ed ammazzare il padre. Nel breve giro di due scene il comico diviene tragico, poi grottesco, infine patetico allorché Donna Anna piange la morte del genitore e risuonano le frementi note del proposito di vendicar quel sangue. E’ più che uno straordinario pezzo di bravura in cui Mozart e l’eccellente librettista Lorenzo Da Ponte evocano sentimenti diversi e contrastanti in poche battute: vien fatto di pensare all’inarrestabile forza creativa di un demiurgo che dà forma ai mille moti dell’umano errare, senza esserne turbato, perché tutto ha da compiersi nel vasto giro di un disegno imperscrutabile a lui stesso. Così le invenzioni pullulano l’una sull’altra: Leporello legge a Donna Elvira, nobildonna di Burgos sedotta e abbandonata, il catalogo delle vittime del suo padrone in un’aria celeberrima (In Italia seicento e quaranta, / In Lamagna duecento e trentuna, / Cento in Francia, in Turchia novantuna, / Ma in Ispagna son già mille e tre); Don Giovanni e Zerlina, nuova possibile vittima, danno vita al vago andante del duettino Là ci darem la mano; indimenticabile è anche l’andante grazioso in cui Zerlina canta, Batti, batti, o bel Masetto, / La tua povera Zerlina.
Uno dei momenti fondamentali che chiarisce la visione di Mozart è la scena in cui la statua del Commendatore interrompe la risata di Don Giovanni, al cimitero. Mozart usa i tromboni, strumenti tradizionalmente legati alle occasioni solenni di spiccata intonazione religiosa, per creare l’atmosfera gotica. Il pubblico della “prima” deve essere stato colto di sorpresa da questa scelta del compositore per un “dramma giocoso”. E’ la firma del genio che è libero dalle regole e dalle consuetudini, e che dal fondo della notte sa fare scaturire il raggio benvenuto dell’alba.
Una attenzione particolare va prestata al lavoro del librettista, Lorenzo Da Ponte, figura particolare e molto interessante della letteratura italiana. Di famiglia ebraica convertita al cattolicesimo (il nome originale era Conegliano), fu amico di Giacomo Casanova. Per Mozart scrisse i libretti per Le Nozze di Figaro (1786), Don Giovanni (1787), Così fan tutte (1790). Il suo talento gli consentì di discriminare con sicurezza tra ciò che è efficace nell’opera lirica e ciò che potrebbe suonare goffo o stonato, a tutto vantaggio della smagliante veste musicale ideata dal compositore. Ha scritto Alberto Asor Rosa nella sua Storia europea della letteratura italiana:
Quando si ha la ventura di associare la propria opera a quella di un genio, come accadde a Da Ponte con Mozart, si rischia di rimanere cancellati: chi ricorda i testi del poeta, rimanendo in ammirata devozione di fronte alle sublimi armonie del musicista?
Tuttavia, se si riesce a resistere alla fascinazione della musica mozartiana, non possono sfuggire le doti di arguzia e di umorismo (trattasi nei tre casi sopra richiamati, vale la pena di precisarlo, di “drammi giocosi”, inclinanti più al riso che al serio), il senso intenso anche se contenuto delle passioni, in particolare quella amorosa, la capacità di passare con rara eleganza da una tonalità all’altra (per esempio, nel Don Giovanni), che contraddistinguono l’agile – ma anche robusta – versificazione pontiana.
Teddy Tahu Rhodes nel ruolo di Don Giovanni, e Taryn Fiebig come Zerlina