William Shakespeare, II

Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri

William Shakespeare, II

 Julius-Caesar murdered

(su Julius Caesar)

Il cittadino svizzero Thomas Platter, in visita a Londra nel 1599, scrisse nel suo diario: “Il 21 settembre dopo colazione, verso le due del pomeriggio, io e i miei compagni abbiamo attraversato il fiume e lì, nell’edificio con il tetto di paglia, abbiamo visto recitare ottimamente da una quindicina di persone la tragedia del primo imperatore Giulio Cesare.”

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(Marlon Brando interpreta Marco Antonio)

L’autore era William Shakespeare, che costruì la tragedia manipolando il materiale storico, proveniente da Plutarco, secondo i tagli di prospettiva e le compressioni temporali che il suo genio drammatico gli suggerirono. Tra le tante scene memorabili, due sono le sequenze fondamentali: le cupe e inquietanti vicende che ruotano intorno allo sconcertante fatto storico delle Idi di marzo del 44 avanti Cristo, e la disfatta del sogno repubblicano di Bruto e Cassio, sconfitti a Filippi da Marco Antonio e Ottaviano nel 42. Di questa tragedia Nietzsche, al colmo dell’entusiasmo, scrisse: “La cosa più bella che io sappia dire a gloria dell’uomo Shakespeare è questa: egli ha creduto in Bruto, e non un granello di diffidenza ha gettato su questo tipo di virtù!” (La gaia scienza, tr. it. di Ferruccio Masini)

A dispetto del titolo, le presenze forti della tragedia sono Bruto e Marco Antonio, e il momento centrale del dramma è la scena seconda del terzo atto, nel corso della quale Bruto si sforza di giustificare logicamente il suo atto davanti alla plebe; Marco Antonio risponde sfruttando l’emotività dei popolani davanti al cadavere massacrato di Cesare, per rilanciare contro i tirannicidi l’accusa di ambizione politica e di malvagità che questi avevano addebitato all’invitto generale. In circa trecento versi Shakespeare fa vivere per tutte le future generazioni umane i due cittadini romani di maggior prestigio di quel frangente storico, e comprendendo e catturando il fervore passionale della folla pone davanti allo spettatore l’immagine indelebile dell’uomo-massa: gli scoppi della furia, gli scatti della lingua, l’enfasi dei gesti sono il frutto di una straordinaria intuizione drammatica e psicologica.

Quando Bruto entra in scena il popolo romano vuole soddisfazione ed egli, seguendo un rigoroso percorso di chiare deduzioni, la fornisce. Amava Cesare, gioiva delle sue fortune, lo onorava per il suo coraggio, lo ha ucciso per la sua ambizione: “Ci sono lacrime per il suo amore; gioia, per per la sua fortuna; onore, per il suo valore; morte, per la sua ambizione.” Se alcuno v’è a Roma che preferisca essere schiavo piuttosto che libero, cioè Romano, parli, perché lui Bruto ha offeso con la sua azione. Nessuno risponde, ognuno esalta il difensore della repubblica che Cesare minacciava di morte.

Entra in scena Marco Antonio, recando il corpo di Giulio Cesare. Il popolo vorrebbe portare in trionfo Bruto, ma questi invita la plebe a lasciarlo partire solo, perché rendano onore alla salma di Cesare porgendo orecchio all’orazione funebre che Antonio, col permesso di Bruto, pronuncerà. Marco Antonio, fingendo riconoscenza nei confronti di Bruto, crea il suo capolavoro di oratoria, al termine del quale la sorte di Bruto sarà segnata. Nutrendo il suo dire degli artifici retorici della captatio benevolentiae (l’abilità di acquistare il favore dell’ascoltatore), dei commenti incidentali, delle ripetizioni emotive, del velato ma invero spietato sarcasmo, dei giochi linguistici, della falsa reticenza che incendia gli animi, degli appelli diretti enfatizzati dalla gestualità, Marco Antonio guida magistralmente la folla verso il fine che, essa ignara, egli si era proposto sin dall’inizio: la condanna senza possibilità di appello della congiura che cambiò la storia di Roma e del mondo antico. L’oratore ricorda che non è lì per lodare Cesare, ma per seppellirlo degnamente; che se Cesare era ambizioso, secondo l’accusa di Bruto, che è uomo d’onore, gravemente ha pagato per quella colpa; che lui. Marco Antonio, era amico di Cesare e ne conobbe la lealtà e la giustizia; che Cesare pianse con i poveri, e per tre volte rifiutò la corona che lo stesso Antonio gli offrì nell’occasione dei Lupercali del 15 febbraio del 44, l’ambizione dovrebbe essere fatta di più dura tempra; ma Bruto, uomo d’onore, ha chiarito che Cesare era ambizioso. Il dolore preme, o sembra premere, nel petto di Antonio. Egli tace, poi riprende a parlare. Menziona, sibillino, un testamento di Cesare a favore del popolo romano; punta l’attenzione sulle ferite inferte a tradimento a quel grande, povere bocche senza nome, addirittura identifica chi le inflisse; scende dal podio tra la gente. La massa è vinta, si inebria, è un unico grido, A morte Bruto e i congiurati.

Uno sguardo altrettanto attento al modo in cui si comporta la folla, distribuito però in più pagine, si trova nel capitolo XIII de I promessi sposi di Alessandro Manzoni, e in un atroce passo di Guerra e pace di Lev Tolstoj (libro III, parte III, cap. 25). Elias Canetti, premio Nobel 1981, dedicò all’enigma della folla e della sua forza spaventosa il suo capolavoro Massa e potere, un poderoso studio che gli richiese trentotto anni di elaborazione. Per chi voglia meditare su questo arcano, la voce di Shakespeare in questi trecento versi è quella dei maestri insuperati.

Un importante spunto di riflessione sulla cruenta vicenda delle Idi di marzo fu offerto al lettore italiano da Luciano Canfora, professore emerito dell’università di Bari, in un articolo dal titolo “Mito e miseria delle Idi di marzo,” pubblicato sul Corriere della Sera il 4 gennaio 2007 (ora raccolto nel volume Il presente come storia, Rizzoli, 2014). Rievocando, sulla scorta delle Vite parallele di Plutarco, i vari momenti significativi che condussero all’assassinio nella Curia che fu poi murata, Canfora ricorda aneddoti come la cena presso Marco Lepido la sera prima dell’attentato, nel corso della quale Cesare, interpellato su quale genere di morte fosse per lui preferibile, rispose, quasi fosse inconsapevolmente presago, “Sopra ogni altra ne sceglierei una rapida e improvvisa”; come gli incubi della moglie di Cesare Calpurnia e il sogno di Cesare di volare in cielo e di stringere la mano di Giove; come il fallito tentativo di un insegnante di greco di nome Artemidoro di fare leggere a Cesare il rotolo che denunciava la congiura. Giulio Cesare cadde trafitto da più di venti pugnalate, una sola delle quali mortale. Luciano Canfora osserva che

durante il suo primo consolato (59 a. C.), Cesare, di fronte all’ostilità preconcetta verso le sue leggi agrarie, aveva gridato in faccia al Senato che “lui controvoglia si faceva trascinare dalla parte del popolo, e ne assecondava le spinte: per colpa della tracotanza e della durezza oppressiva del Senato.” Uccidendolo, i congiurati non si avvidero di avere eliminato il più lucido e lungimirante esponente del loro ceto.

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