Aurelio Agostino

Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri

Aurelio Agostino

agostino

(354 – 430)

Dal 397 al 400 d.C. ad Ippona, sulla costa dell’Africa del nord, il vescovo della città, pur impegnato in un’attività pastorale intensa e sfibrante, caratterizzata da predicazioni, opere caritative, confutazioni, in materia di ortodossia e di eresia, di manichei e donatisti e pelagiani, trova (o inventa) il tempo per comporre un libro che spieghi a se stesso e al mondo il proprio itinerario esistenziale. Lo intitola Confessiones. Forse nelle veglie dedicate ad estrarre dalla memoria le vicende e i passaggi più pregnanti del suo sofferto cammino dalle tenebre alla luce di una verità, allorché, possiamo immaginare, accanto al fuoco o sotto la finestra attraverso la quale la luce delle stelle filtrava parlandogli del suo Dio così personale e così infinito, nel silenzio in cui il suo linguaggio diveniva strumento di scavo potente e sensibilissimo, là al confine della trasumanazione in cui il mistico pastore diviene uno con la divinità e dimentica il mondo, attento però a non valicarlo ancora per non abbandonare il gregge affidato alle sue cure, – forse il vescovo Agostino, pur sentendo quanto angusta era la casa della sua anima perché il Dio a cui agognava potesse entrarvi, avrà intuito che il libro che andava componendo sarebbe divenuto uno dei pilastri del mondo, guida compagno conforto per tutte le generazioni a venire.

Così deve essere stato, perché le Confessioni di Aurelio Agostino sono uno dei rari libri nati immortali: la loro apparizione tra noi è paragonabile all’emergere, alla soglia dell’intelletto assopito, di ciò che da sempre è, ma che da sempre è rimasto avvolto in un confuso mormorio di fondo che non ha permesso alla gonfia gemma di sbocciare in fiore profumato. Da sempre, infatti, l’uomo si interroga sulla propria umanità, sulla propria divinità, sul divenire e sulle leggi del tempo, sulla gioia e il dolore e l’innocenza e la colpa. E da sempre l’uomo fatica a trovare la pace, finché la verità non lo accolga, come una madre amorevole che abbraccia il fantolino in lacrime, perché si credeva abbandonato.

Agostino, con intuizione profonda, riassume tutto il travaglio umano, “che mai non resta,” subito nelle prime righe del suo libro, risolvendolo in parole che suonano definitive come se fossero incise nel bronzo: inquietum est cor nostrum donec requiescat in te, non ha pace il nostro cuore finché non riposi in te. Da questa verità parte il viaggio di Agostino, che in una serie di capitoli di prosa senza eguali estrae dal passato la propria nascita e poi l’infanzia e quindi la fanciullezza; ripercorre l’adolescenza inquieta, gli svaghi studenteschi, la vanità di sé come giovane retore, le crisi scettiche, il confronto con il male, la conversione, la vita nuova. Nella narrazione si mescolano scene drammatiche e meditazioni filosofiche e religiose. Un passo sorprendente, che schiude la voragine che si apre quando la parola si fa essenziale e l’uomo si interroga sul rapporto tra parole e verità, è all’inizio del libro II:

Ma a chi narro questi fatti? Non certo a te, Dio mio. Rivolgendomi a te, li narro ai miei simili, al genere umano, per quella piccolissima particella che può imbattersi in questo mio scritto. E a quale scopo? All’unico scopo che io ed ogni lettore valutiamo la profondità dell’abisso da cui dobbiamo lanciare il nostro grido verso di te. Eppure cos’è più vicino alle tue orecchie di un cuore che si confessa e di una vita sostanziata di fede? (traduzione italiana di Carlo Carena)

Se la voce dei maestri ha valore, è perché risveglia in coloro che sanno intenderne il timbro, ciò che in essi giace inerte, quasi obliato ma che, d’un subito, si desta ed essi scuotono da sé il torpore e vedono la luce .

La conversione, preparata da un lungo e tormentoso itinerario di introspezione, avviene subitanea in un giardino di una villa di Milano, allorché Agostino, giunto ormai al fondo del proprio affanno spirituale in seguito alle cupe riflessioni sull’esistenza del male che avevano riempito di sconfinata amarezza il suo cuore affranto, ode la voce di un bimbo che canta Tolle lege, tolle lege (“prendi e leggi, prendi e leggi.”) Folgorato, Agostino apre il libro delle epistole di Paolo di Tarso che aveva appena posato e legge il primo versetto che gli capita sotto gli occhi. E’ un passo dalla lettera ai Romani: “ Non nelle crapule e nell’ebbrezze, non negli amplessi e nelle impudicizie, non nelle contese e nelle invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo né assecondate la carne nelle sue concupiscenze.” Da quel momento Agostino diviene un altro uomo:

Non volli leggere oltre, né mi occorreva. Appena terminata infatti la lettura di questa frase, una luce, quasi, di certezza penetrò nel mio cuore e tutte le tenebre del dubbio si dissiparono.

Questo episodio diverrà l’alimento di cui si nutriranno innumerevoli altre conversioni. Anche per questa valenza, lo studioso americano Garry Wills, autore di una bellissima monografia dedicata a Sant’Agostino (1999) propone di tradurre Confessiones con La Testimonianza, perché confiteri significa, etimologicamente, corroborare o confermare una testimonianza: cita a questo proposito un passo di Agostino sul vangelo di Giovanni: “Questo significa testimoniare [confiteri], proclamare ciò che il cuore ritiene vero. Se la lingua e il cuore non sono in armonia, l’uomo recita, non dà testimonianza.”

Memorabili sono le meditazioni di Agostino sul tempo, questo arcano che tutti ci avvolge e confonde: è inesatto dire che esistono passato presente futuro, osserva Agostino, “sarebbe forse più corretto dire: i tempi sono tre, presente del passato (praesens de praeteritis), presente del presente (praesens de praesentibus), presente del futuro (praesens de futuris),” che corrispondono alla memoria, alla facoltà visiva, all’attesa. Queste meditazioni, compresse in poche righe di straordinaria lucidità, creano vertigini di infinito: suonano più dimesse, al confronto, le intuizioni del filosofo Henri Bergson sul tempo come flusso, che servirono a Marcel Proust per dare inizio alla sua ricerca del tempo perduto, quindici secoli circa dopo Agostino di Ippona.

Segnalo, per eleganza di lingua e intensità di sentire e acutezza filologica, la traduzione italiana di Carlo Carena. Il dialogo a distanza tra l’autore e il suo interprete diviene la modalità nuova in cui la voce del vescovo si risveglia e si riconosce e risuona tra di noi. Magia dell’arte: i secoli trascorsi nel frattempo si sbriciolano, come le escrescenze secche delle piante che mano esperta e amorosa sa potare.

ippona

(Ippona, le rovine)

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