Mario Vargas Llosa, II

Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri

Mario Vargas Llosa, II

Mario_Vargas

(Arequipa, Perù, 1936)

L’occhio critico di Vargas Llosa va lontano ed in profondità. Già dalle prime pagine, che trasudano del caldo amore che nutre per la letteratura, cui ha dedicato la sua vita, il discorso si allarga a quegli eventi “culturali” del nostro tempo che sono le “adunate oceaniche” causate dalle partite di calcio o dai concerti dei cantanti o dei gruppi musicali più di moda; negli stadi o negli immensi spazi aperti, quando il volume delle voci e degli strumenti diviene assordante, si realizza quello che i mistici di ogni tempo hanno conseguito praticando severe discipline ascetiche, cioè l’oblio, o superamento, di se stessi. Anche il consumo degli stupefacenti è sintomatico di una vita dedita ai piaceri facili, ai falsi paradisi artificiali che immunizzano contro la possibilità e la responsabilità dell’incontro con la paurosa complessità della propria individualità, che si consegue “grazie alla riflessione e alla introspezione, attività precipuamente intellettuali che risultano noiose (aburridas) alla cultura superficiale e ludica che impera.” Nel vuoto dei valori prosperano le dozzine dei culti religiosi alternativi, che promettono, anch’essi, di donare la felicità, senza sforzi particolari.

Per quanto riguarda la sfera politica e sociale, dove l’immagine ha senz’altro il primato, Vargas Llosa scrive una frase lapidaria che per noi italiani, in questi anni, non ha bisogno di commenti. La dò nell’originale spagnolo, perché non richiede nessuna traduzione: En la civilización del espectáculo, el cómico es el rey.

Non sfuggono alla banalizzazione crescente il mondo dell’informazione, sempre più votato alla caccia allo scandalo; quello delle arti plastiche, in cui qualunque abborracciatura bislacca può pretendere all’aura di capolavoro; e, purtroppo, neppure quello tutto privato della sessualità. Tutti questi temi sono trattati da Mario Vargas Llosa in altrettanti capitoli, ognuno dei quali è accompagnato, a guisa di glossa finale, da uno o più articoli tra quelli che lo scrittore scrive per il quotidiano spagnolo El País, nella sua rubrica dal titolo Piedra de Toque, cioè “Pietra di paragone”. Interessanti, anche perché basati sui ricordi personali di eventi e personaggi, quelli dedicati alle conseguenze ideologiche del fin troppo celebrato maggio ’68 parigino. Stimolatore di una presa di coscienza più seria che non una superficiale dichiarazione di principio in favore della “libertà per tutti”, è il capitolo sul velo islamico, in cui si discute del senso e della legittimità di certe pratiche all’interno di una società aperta: mentre scrivo queste righe, giunge la notizia dell’orrendo massacro di Parigi (7 gennaio 2015), e quelle pagine acquistano rilevanza quasi profetica.

Di notevole importanza per ogni istituzione dedicata alla pratica educativa è l’intervento dal titolo “Più informazione, meno conoscenza”, pubblicato da Vargas Llosa il 31 luglio 2011. Vi si avanza un preoccupante sospetto: lo sviluppo di Internet e del sapere sfaccettato, frammentario, a salti, reso possibile dai collegamenti ipertestuali, rende sempre più difficile, per le nuove generazioni, il mantenimento della concentrazione a lungo termine che il libro cartaceo richiede e rafforza: chi cresce tra gli stimoli delle immagini e delle parole di questo o di quel sito virtuale, perde gradualmente la capacità di seguire uno sviluppo di pensiero o di intreccio narrativo che si protrae nel tempo, convincendosi che tutto, sempre, si risolve nel frammento che di volta in volta attira la sua curiosità: in breve sarà però dimenticato, fagocitato dal prossimo frammento, altrettanto effimero: la persona galleggia infine come un sughero senza direzione sul mare dell’indistinto. Come già chiarì Marshall McLuhan nel suo pionieristico Understanding Media, ora quasi obliato, pubblicato nel 1964 (in italiano, Gli strumenti del comunicare, 1967), il medium è il messaggio, e non un semplice veicolo del contenuto, neutro strumento rispetto al valore di ciò che si comunica: il mezzo influenza e modifica i nostri modi di comprendere e pensare e vivere. Scriveva McLuhan all’inizio del suo libro: “In una cultura come la nostra, abituata da tempo a frazionare e dividere ogni cosa al fine di controllarla, è forse sconcertante sentirsi ricordare che, per quanto riguarda le sue conseguenze pratiche, il medium è il messaggio. Che in altre parole le conseguenze individuali e sociali di ogni medium, cioè di ogni estensione di noi stessi, derivano dalle nuove proporzioni introdotte nelle nostre questioni personali da ognuna di tali estensioni o da ogni nuova tecnologia.” (tr. it di Ettore Capriolo)

Non è vero, sottolinea Vargas Llosa, che Internet sia soltanto uno strumento (una herramienta): “non è una metafora poetica dire che l’intelligenza artificiale corrompe e seduce i nostri organi di pensiero, che lentamente divengono dipendenti da quegli strumenti, e, infine, schiavi.” Perché un giovane dovrebbe fare lo sforzo di apprendere e sistematizzare le conoscenze se una semplice pressione del puntatore apre i collegamenti con il più grande archivio di informazioni che l’uomo abbia mai avuto a disposizione? Un facilissimo movimento della mano, quasi indipendente dal comando della volontà intellettiva, farà resuscitare ciò che è sepolto da qualche parte, e fornirà le risposte, sempre parziali, che ogni dato momento richiederà. Che non avvenga mai una sintesi critica, è problema che neppure si affaccia: si vive nel momento e per il momento, ormai, nel più lugubre appiattimento a cui il carpe diem di Orazio possa essere piegato. “Delegare agli elaboratori la soluzione di tutti i problemi cognitivi riduce la capacità dei nostri cervelli di costruire strutture stabili di conoscenze. In altri termini: quanto più intelligenti le macchine, tanto più stupidi noi,” conclude Mario Vargas Llosa.

Temi inquietanti, che tutti siamo chiamati ad affrontare, non tanto per cercare di risolverli, data la loro complessità, ma per esserne coscienti. Mi ha molto turbato, a questo proposito, una recente dichiarazione del fisico inglese Stephen Hawking che, immobilizzato su una sedia a rotelle a causa della grave sindrome che lo ha paralizzato (la sclerosi laterale amiotrofica che distrugge il sistema neuromuscolare), sa però fare giungere al mondo ciò che il suo straordinario cervello investiga e comprende. In una recente intervista alla rete televisiva BBC, il suo volto immobile e devastato dalla malattia ha catturato l’attenzione e sorpreso sia gli addetti ai lavori che il pubblico profano, mentre la sua voce, filtrata da un elaboratore, pronunciava poche, lapidarie parole. Stephen Hawking ammoniva che “lo sviluppo dell’intelligenza artificiale può con grande probabilità significare la fine dell’intelligenza umana.”

MarioVargasLlosa signing

(L’autore firma una copia di un suo libro)

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