Carlos Castaneda, I

Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri

Carlos Castaneda, I

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(1925? – 1998)

Una sera di ottobre di alcuni anni fa, la cui data precisa non è di particolare importanza, camminavo per le strade maliose di Helsinki, la capitale della Finlandia, ammantata di rara avvenenza ai miei occhi. Assaporavo ogni singolo passo, apprezzando l’unicità, non solo la armonica serie, dei vari momenti della mia avventura nel settentrione dell’Europa. Il clima, seppure più frizzante di quello temperato dal quale provenivo, era insolitamente mite, e favoriva e la serena introspezione e il godimento dei ritmi armoniosi delle strade e degli edifici di quella città. L’ordinata ariosa geometria del contesto urbano, che non cedeva mai all’austera severità di tanti altri centri di ispirazione gotica, non pareva turbata neppure dall’occasionale entrata in scena di un passante la cui silenziosa, barcollante andatura rivelava che aveva raggiunto e superato lo stadio della chiassosa euforia che il liquore assunto in determinate quantità dona; mi passava accanto senza accorgersi di me, rilasciando, mio malgrado, densi grumi di vapore alcolico che lento ascendeva, sciogliendosi, verso le cimase in alto. Come in tanti paesi del nord del pianeta, l’abuso di alcol è una abitudine nata dall’illusione che il calore che si sprigiona dalla bottiglia contrasti il gelo che dall’aria scende a ghermire i corpi.

Entrai in una libreria (sicut meus est mos) ancora aperta nonostante l’ora avanzata, e assaporai il piacere di muovermi tra scaffali bene ordinati e bene illuminati, tra tanti libri in tante lingue. Sfogliai una recente traduzione inglese dei Demoni di Fjodor Dostoevskij, e mi parve che bene aveva meritato il premio di cui era stata insignita. Poi la mia attenzione fu attirata da un volume dalla copertina multicolore, The Wheel of Time (La ruota del tempo, in italiano); l’autore, Carlos Castaneda, vi aveva raccolto passi scelti e commentati dalla sua straordinaria opera in tanti tomi, nata dall’incontro con un indiano Yaqui che viveva tra il Messico e l’Arizona, che gli aveva svelato l’universo delle conoscenze esoteriche del suo popolo. D’un subito fui rivisitato dalle memorie e dagli entusiasmi che la lettura dei libri di Castaneda mi aveva fatto nascere tanti anni addietro, quando con curiosità incredula e stupore intellettuale crescente li avevo letti e riletti. Sorse in me la figura dello sciamano don Juan Matus che, nelle parole del grande conoscitore di segreti italiano Elémire Zolla “insegna a modificare a volontà il quadro del reale, a largire o a ritirare la nostra fede secondo l’interesse del nostro spirito conoscitivo, proteso dalle forme formate alle forme formanti, a realibus ad realiora. La fantasia mercé l’allenamento sciamanico deve diventare duttile e forte come il polso d’uno spadaccino; l’interpretazione delle percezioni deve rispondere esclusivamente agli interessi spirituali.” (1978)

Allorché era studente di antropologia preso l’Università di Los Angeles, California, Carlos Castaneda iniziò ad interessarsi delle piante e delle erbe medicinali che costituivano parte del bagaglio delle conoscenze segrete degli sciamani del sud-ovest americano. Grazie all’intervento di un conoscente comune conobbe un eccezionale, ed inquietante, indiano Yaqui che gli avrebbe aperto le porte dell’arcano. Sono indimenticabili i paragrafi iniziali del primo libro di Castaneda, A scuola dallo stregone, che ricreano quel momento fondamentale della sua vita:

Nell’estate del 1960, quando studiavo antropologia all’Università di California, Los Angeles, feci ripetuti viaggi nel sud-ovest per raccogliere informazioni sulle piante medicinali usate dagli indiani di quell’area. Gli eventi che descriverò in quest’opera ebbero inizio in uno di quei viaggi. Ero in attesa di una corriera Greyhound in una città di frontiera e conversavo con un amico che mi era stato di guida e di supporto nella ricerca. D’un subito si chinò verso di me e mi bisbigliò che l’indiano dai capelli bianchi che sedeva davanti ad una finestra era esperto di piante, specialmente del peyote. Chiesi all’amico di presentarmi. Accennando un saluto, l’amico si avvicinò al vecchio e gli strinse la mano. Dopo pochi convenevoli mi fece cenno di unirmi a loro, ma mi lasciò subito solo con lui senza curarsi di presentarmi. Dissi il mio nome, e il vecchio disse di chiamarsi don Juan, al mio servizio. Usò lo stile formale spagnolo di presentazione, senza imbarazzo. Gli strinsi la mano e poi restammo in silenzio. Non era un silenzio causato dal disagio, era una tranquillità naturale, rilassata. Benché presentasse rughe sul volto e sul collo che tradivano la sua età, il suo corpo mi colpì per l’agile muscolatura.

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Come si intuisce da questo estratto, Castaneda non usa il registro tecnico dello studioso, ma sfrutta il proprio talento narrativo per creare descrizioni fresche e compiute, integrando in seguito il testo con dialoghi naturali ed efficacissimi, che evocano ogni sfumatura di senso e di umore. Il lettore si trova, così, irretito e incuriosito e affascinato dalla veste scientifica e romanzesca di quelle pagine, che svelano modi e stili cognitivi inauditi e sorprendenti, tali da scardinare le nostre convinzioni più radicate; come accade quando si è alle prese con la grande narrativa, il ritmo affabulatorio conquista e mantiene in suo potere. E’ impossibile non partecipare, come se fossimo presenti anche noi, alle avventure di Castaneda apprendista stregone, non si possono non condividere le sue reazioni, dallo sbigottimento al terrore di fronte al minaccioso ignoto. Tra i primi insegnamenti di don Juan è l’elenco dei quattro nemici fondamentali dell’uomo di conoscenza: la paura (che fa dubitare ed esitare), la lucidità (che spesso abbaglia e acceca invece che illuminare), il potere (che rende crudeli e capricciosi) e la vecchiaia (che induce alla stanchezza e alla debolezza). Solo affrontando e sconfiggendo questi terribili avversari un uomo può divenire un guerriero impeccabile. Spiegando all’entusiasta studente di Los Angeles queste insolite dottrine e dilungandosi da esperto sulle proprietà delle piante allucinogene e sul loro uso nei riti sciamanici, don Juan cattura l’attenzione e la dedizione dello zelante discepolo, e senza che egli lo sospetti lo introduce in una dimensione occulta, di cui non si parla ma in cui si agisce seguendo schemi cognitivi che non sono contemplati nelle università e nelle istituzioni che nell’occidente sono rette dalla visione razionale del mondo.  (continua)

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(La copertina che Time Magazine dedicò a Carlos Castaneda)

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