Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri
Annibale al Trasimeno
(217 a. C.)
Al termine di un viaggio di cinque mesi, iniziato a Cartagena, in Spagna, e segnato dalla leggendaria ed epocale traversata delle Alpi, Annibale scese in Italia, devastando il territorio dei Taurini. Aveva con sé 20.000 fanti, 6.000 cavalieri, e i pochi elefanti sopravvissuti alle nevi e ai crepacci della catena alpina. Il generale cartaginese era riuscito a tenere sotto il suo controllo un ingente corpo di soldati diversi per razza e lingua, in condizioni alle quali non erano preparati né fisicamente né mentalmente, e a vincere non solo le difficoltà del clima e del terreno, ma anche quelle create dalle popolazioni locali, che ricorrevano con audacia e sorprendente efficacia alle tattiche più inaspettate della guerriglia per attaccare il nemico. Ora la sua armata, certamente stanca e inesperta del terreno, doveva affrontare il compito più difficile, scontrarsi con le forze romane superiori e, presumibilmente, meglio organizzate.
La prima battaglia fu combattuta ad ovest del fiume Ticino, e la cavalleria numida di Annibale ebbe la meglio, risultando determinante per il successo finale: il console Scipione, padre del futuro Africano che trionfò a Zama, fu gravemente ferito. Il secondo scontro avvenne a sud di Piacenza, lungo la riva sinistra del fiume Trebbia. I Romani furono nuovamente sconfitti. Era il dicembre 218. a questo punto Liguri, Galli, Celti si unirono alle file di Annibale, che decise di procedere verso la vallata dell’Arno, raggiunta nella primavera del 217, devastando e saccheggiando quanto più spietatamente poteva per provocare il nemico ad un nuovo scontro frontale. Contro l’avanzata cartaginese Roma inviò l’esercito del console Gaio Flaminio, che salì fino a Perugia, e da lì verso il lago Trasimeno, dove, però, Annibale lo aveva preceduto. Quando il generale vide le colline che digradavano verso il lago, concepì il piano della battaglia: quei luoghi, nelle parole di Tito Livio (libro XXII della sua monumentale Storia di Roma) sembravano fatti apposta per una imboscata (loca ad insidias nata). Al termine dello stretto passo che Flaminio avrebbe dovuto imboccare, si apriva una pianura dove Annibale pose il campo per sé e per i suoi soldati: nascose però la cavalleria tra le colline che costeggiano il passo, e i guerrieri Baleari sulle alture circostanti. Flaminio giunse di sera, poté solo vedere il campo di Annibale davanti a sé, non ebbe tempo di inviare i suoi reparti speciali in perlustrazione, e si fermò aspettando l’alba per ingaggiare le forze del formidabile avversario.
Nelle prime ore del giorno una coltre di nebbia si mosse dal lago e coprì uomini e cose: in basso non si vedeva nulla. Sulle colline l’aria era tersa e splendeva il sole. Annibale, salito verso le sue forze nascoste, diede il segnale di attacco: cavalleria e Baleari si scagliarono sui Romani, innalzando alte grida di guerra. I legionari non poterono schierarsi, a causa dell’angusta natura del luogo dove erano bloccati, e non potevano vedere il nemico, solo ne udivano l’orrendo strepito. Disordine e scoramento invasero gli animi, e poco poté fare il console Flaminio che passava di reparto in reparto cercando di infondere coraggio e disciplina. Tito Livio racconta che il console, fermo e risoluto, ripetutamente ammonì i suoi soldati che soltanto il proprio valore, e la saldezza del loro braccio e del loro proposito, li avrebbe condotti alla salvezza, cioè alla vittoria: le sue parole, però, erano fatalmente sommerse dalle urla degli invisibili nemici.
Per i Romani fu una crudele disfatta: a migliaia furono massacrati, e molti annegarono cercando un impossibile scampo nelle acque del Trasimeno. Un cavaliere insubre, che aveva nome Ducario, scorse il console Flaminio, attorniato dai suoi fidi, che combatteva con coraggio e determinazione. Spronò il cavallo, urlò che ora poteva vendicare le morti che il console aveva provocato tra i suoi concittadini nel corso di una precedente campagna bellica, e caricò: trapassò con la lancia un legionario che difendeva Flaminio, e quindi trafisse il console, alzando possenti grida di trionfo. I Romani si sbandarono completamente. Un folto gruppo si aprì un varco per la ritirata, ma fu raggiunto il giorno seguente dalla cavalleria di Maarbale, che promise loro la libertà se deponessero le armi. Non appena i legionari gettarono spade e lance, Maarbale li fece mettere in catene, secondo la consuetudine proditoria dei cartaginesi, bollata dai Romani col termine di punica fides. Per quanto logorati da marce e battaglie, i cartaginesi potevano ora continuare la discesa lungo la penisola italica, che li avrebbe portati fino ll’incredibile trionfo di Canne e agli ozi di Capua.
I luoghi dove si svolse la battaglia non sono molto cambiati dall’anno 217 a. C. Si possono visitare partendo dal borgo di Tuoro al Trasimeno, seguendo un affascinante percorso che ricostruisce le fasi del violentissimo scontro. Una serie di postazioni sulle colline che fronteggiano la distesa delle acque ripercorre le varie tappe dell’avvenimento storico: l’arrivo di Annibale, la preparazione dell’agguato, l’avvicinarsi dei Romani, l’ordine di attacco del generale cartaginese, la morte di Flaminio, la disfatta, la tentata fuga. La storia si fa allora viva e pulsante e drammatica, ancor più se si portano con sé le pagine indimenticabili che Tito Livio dedica a questo fatto militare, all’inizio del libro XXII di Ab Urbe Condita.