Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri
La Natura
(ovvero, la bellezza non umana)
Concede le sue grazie la Natura (e così si dice faccia anche la Verità) solo a colui che a lei si dedica con animo schietto e trasparenza di intenti; a colui che non sente come fatica insostenibile e ingrata le ore trascorse a risalire valli e pendii per lasciarsi infine alle spalle la disarmonia urbana; a colui che ama scelta o nulla compagnia quando vi si immerge. Allora, come fanciulla pudica ma appassionata, la Natura si offre alla vista nella sua nuda pristina bellezza, nella inesauribile ricchezza dei suoi aspetti e, miracolo finale, fa sì che chi la contempla in quei momenti privilegiati non si senta più separato da essa, da essa diviso nel suo ruolo di inquisitivo spettatore, ma si riconosca unito a ciò che vede, parte di ciò che è manifesto: così l’ulcerosa frattura io/non-io (che porta alla convinzione che il soggetto – l’onnipresente, tirannico io – sia padrone assoluto dell’oggetto – la troppo torturata natura – è superata, come può accadere nei momenti più intensi dell’amore. Allora non si pensa più al possesso, ma alla contemplazione e all’apprezzamento della bellezza: soltanto ancora ci si può incupire se gli occhi, in luoghi più vicini ai centri abitati, incontrano i segni dell’incuria e dell’inquinamento, – sacchetti di plastica, e bicchieri e bottiglie, che tristezza!
Sapevano cogliere i poeti romantici le voci della Natura: la subitanea apparizione di un prato di giunchiglie solari colmava William Wordsworth di gioia e di conoscenza; Samuel Taylor Coleridge e John Keats intendevano il canto dell’usignolo; Percy Bisshe Shelley quello dell’allodola. In tempi più vicini a noi Eugenio Montale avvertì che il giallo dei limoni gli scaldava il cuore, e chiedeva in dono il girasole impazzito di luce; il poeta inglese Ted Hughes, da parte sua, rimaneva affascinato dal vapore che si innalzava dalle narici dei cavalli immobili sulla collina nel freddo del mattino.
Lasciamo, per un giorno, l’auto o la motocicletta nel loro grigio vano sotto casa, prendiamo la bicicletta abbandonata da troppo tempo e, dopo una sommaria pulizia e una buona pompata alle gomme, spingiamoci oltre i limiti della città, là dove inizia una pista che promette di isolarci dal traffico. Costeggiando il fiume siamo colpiti dalle sue anse ombrose, e dalle altre ove la luce del sole crea squillanti colori; corre la corrente ora ruinosa ora più lenta e gli steli d’erba sulla sponda si chinano e si rialzano seguendo il gioco delle onde. Sul sentiero si alza in volo da un cespuglio un merlo e, posatosi sul ramo di un castagno, ci fa udire il suo fischio melodioso: quasi di sorpresa ci riporta alla mente il verso di una semplice canzone di George Harrison (uno dei quattro indimenticabili Beatles) – blackbird singing at the break of dawn – e quella sonda gettata improvvisa nello spazio indefinito del nostro passato ci regala altre emozioni.
Più avanti una staccionata protegge una famiglia di pazienti cavalli avelignesi, un puledro ancora incerto sulle zampe si avvicina alla madre, cerca con il muso i capezzoli. Una lucertola attraversa il sentiero davanti a noi, rapidissima, poi scarta leggera e imprevedibile gettandosi nella forra umida ed erbosa; quell’umile vita risveglia nella nostra mente, improvvisamente, una terzina di Dante, che pensavamo sepolta nell’ oblìo: come ‘l ramarro sotto la gran fersa / dei dì canicular, cangiando siepe, / folgore par se la via attraversa; d’un tratto ci pare di comprendere, ed è quasi un’illuminazione, i memorabili versi di apertura del famoso sonetto di Charles Baudelaire che s’intitola Corrispondenze:
La Natura è un tempio ove vivi pilastri
Lasciano talvolta uscire confuse parole;
L’uomo vi passa tra foreste di simboli
Che l’osservano con sguardi familiari.
Si creano arcane eco tra le tante stanze della nostra vita che credevamo chiuse l’una all’altra, si richiamano e si rispondono le emozioni in giochi imprevisti dai mille significati: se intendiamo questi processi, qualche nodo si scioglie, le percezioni si fanno più sottili, più pregnanti.
Così più tardi, mentre a piedi seguiamo un torrente montano che scende verso la pianura tra salti di roccia e stretti dirupi, sostiamo per intendere davvero, usando i sensi esterni e quelli interni, quel corso d’acqua, perché vogliamo portarlo poi indietro con noi. Il ruscello si allarga e per un attimo si placa sul greto ghiaioso sul quale è bello posare i piedi nudi per saggiarne il gelo; poi crea geometrici fluidi mulinelli insinuandosi tra due massi che presentano più viscida superficie; devia accelerando verso una strettoia; forma un salto che fruscia e sprizza; la conca ove sbocca è un ribollire bianco spumoso denso impenetrabile dove il vortice si abbatte, sfrangiato fino a divenire trasparenza elusiva ai suoi bordi, e l’occhio non sa calcolare la profondità a cui è posta la pietra colore dell’ocra che all’acqua fa fondo in basso e sponda più sopra.
Ci riscuotiamo: mentre seguivamo la corrente ci siamo dimenticati di noi stessi, eravamo quel moto e, insieme, le parole che cercavano di renderlo: soltanto ora siamo tornati al nostro io consueto, ma tanto più ricco. Anche noi siamo stati parte della Natura, come abbiamo avvertito all’inizio di questo articolo.
Che bello, se c’è una presenza amata vicino, ora è il tempo di abbracciarla e di donarle un bacio.
Ho navigato più di due ore su internet, ma non avevo ancora trovato un articolo così interessante.
Se tutti i blog avessero articoli fatti così bene, il web sarebbe
decisamente più interessante da leggere. Un caro saluto.