Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri
Alessandro Manzoni, II
(1785 – 1873)
Il grande poeta e narratore argentino Jorge Luis Borges fa dire al protagonista di una sua bella novella intitolata Utopía de un hombre que está cansado, che si trova nella raccolta El libro de arena (1975), che ciò che importa non è tanto leggere un libro, quanto ri-leggerlo. L’osservazione è uno dei tanti gioielli sparsi nel mondo della letteratura che rischiano di passare inavvertiti ma che incarnano quelle profonde verità del cui valore, meglio di tutti, parlò in versi il poeta inglese del XVIII secolo Alexander Pope: la preziosa essenza della comunicazione letteraria è di dire “ciò che fu spesso pensato, ma non mai così bene espresso.” Nel ri-leggere un testo, infatti, si arricchisce ogni volta la propria comprensione della struttura e del significato dell’opera, si affina la percezione estetica, si scoprono nodi e temi che erano rimasti nell’ombra nel momento in cui si seguivano con vergine passione le curve e lo sviluppo dell’intreccio.
Nel caso del capolavoro di Alessandro Manzoni, la ri-lettura è tanto più necessaria quanto più la conoscenza dell’opera pare scontata, dato il fatto, storicamente comprovabile, che fu frequentata o subita negli anni lunghi della educazione scolastica da tutti noi.
Immaginiamo un ipotetico Ri-lettore giunto alla fine della sua istruttiva fatica: posato il libro, appena staccati gli occhi dall’ultima pagina che risuona ancora dei bacioni che nonna Agnese stampa sulle guance dei nipotini, tuttora sotto l’influenza della malia narrativa dell’autore, egli mentalmente ripassa, quasi senza seguire ordine alcuno, scene ed eventi e personaggi che gli hanno fatto compagnia per il tempo della ri-lettura. Rivede, per esempio, la “notte degli imbrogli”: risorge allora il tentativo del matrimonio segreto che Renzo e Lucia cercano di celebrare, con l’aiuto di Agnese e Tonio e Gervaso, sorprendendo Don Abbondio per diventare marito e moglie nonostante la soperchieria di Don Rodrigo. Lo stesso Don Rodrigo riappare agli occhi della memoria mentre attende inquieto l’esito del suo tentativo di rapimento che, concertato con il Griso, capo dei i suoi bravi, dovrebbe portare Lucia al suo palazzotto. Padre Cristoforo prega nel silenzio della piccola chiesa del convento di Pescarenico, dopo avere in fretta in fretta inviato Menico ad avvisare le donne che per amor del cielo si mettano in salvo fuggendo dalla loro casa minacciata. Il giovane Menico si trova così a tu per tu con tanti paurosi “birboni”. Il risultato della notte più agitata del romanzo, ricorda il nostro Ri-lettore, è che i protagonisti devono lasciare il loro amato paese natale, separazione quanto mai dolorosa per Lucia, che permette a Manzoni di stendere una delle pagine più suggestive della sua opera, “Addio monti sorgenti dall’acque ed elevati al cielo,” brano di struggente forza poetica e di notevole rilevanza narrativa, perché intreccia con geniale ispirazione la dimensione personale (cioè i modesti, pudichi sogni di una semplice ragazza di paese) con i meccanismi della storia che fagocitano anche chi non sa nulla di quegli ingranaggi: sono i rapporti di potere che fanno di Lucia, e di Renzo, le vittime eternamente predestinate, e che si dilatano, dalle prepotenze di un signorotto non particolarmente mefistofelico, alle manovre del cardinale Richelieu e del conte di Olivares e del duca di Wallenstein, che sfociano nella calata dei lanzichenecchi nell’Italia settentrionale e nella conseguente epidemia di peste del 1630.
Le riflessioni del nostro ipotetico Ri-lettore, a questo punto, prendono l’intonazione di una domanda che si è andata formando mentre quegli eventi rivisitavano la sua mente: nutriva Alessandro Manzoni una completa sfiducia nella valenza delle azioni umane? Ogni intrapresa che i personaggi del romanzo architettano per deviare il corso delle vicende nella direzione da essi auspicata, fallisce. E’ un fiasco il tentativo del matrimonio segreto; finisce in un grottesco e umiliante insuccesso il progetto di rapire Lucia; non va a buon fine l’intervento, volto al bene, del Padre Cristoforo. Neppure l’aiuto e l’interesse del Cardinale Federigo Borromeo e dell’inquietante Innominato, ora potentemente convertito, sbloccano la situazione. L’umile Renzo e l’umile Lucia potranno unirsi nell’agognato matrimonio solo dopo che la peste avrà portato via Don Rodrigo: soltanto a quella condizione Don Abbondio, impermeabile ad ogni forma di educazione spirituale, si sentirà libero dalla paura che congela ogni forma di speranza di vita. Non sono le opere degli uomini, non quelle buone non quelle cattive, che provvedono le soluzioni. Sono i disegni oltre-umani, le forze scatenate da un potere occulto e onnipervasivo che Manzoni, d’accordo con la sapienza popolare, chiama Provvidenza, che determinano i casi della vita. Le decisioni dei singoli, privati o in veste di pubbliche istituzioni, non sono che i travestimenti, spesso patetici, del Potere impersonale che volge e travolge e affanna e consola.
Forse, a questo punto, il nostro presunto Ri-lettore avvertirà un momentaneo sconforto, ma in fretta comprenderà che la visione di Manzoni non è così disperata. La sua equanime posizione ci dice che, se è vero che le leggi della storia sono più profonde che quelle della condizione umana, è altrettanto evidente che l’agire umano, quando è regolato dalla saggezza, coopera con le forze ad esso maggiori, e sa allora ordinare, preparare, coadiuvare. E’ una lezione di benefica umiltà, in armonia con i protagonisti del romanzo, le due semplici creature illetterate e ingenue che godono di tutta la simpatia dell’autore. Ne segue un nuovo apprezzamento della famosa ironia manzoniana: non è tanto una modalità del paternalismo conservatore, pronta sempre a stemperare le tinte più accese in vista della protezione dell’ordinamento esistente, che anche quando è ingiusto è comunque funzionale e preferibile ad ogni forma di violento sovvertimento; risuona piuttosto come il travestimento ilare della pensosa preoccupazione dello scrittore, che sa che la pretesa umana di dirigere e di guidare la storia è cieca tracotanza, e sempre genera nuove sofferenze e nuovi errori, non soltanto non previsti, ma purtroppo anche immedicabili.
Il nostro Ri-lettore si alza ora più rinfrancato, sicuro che nel volgere di qualche altro anno si troverà ancora ad aprire il volume che ha da poco riposto sullo scaffale, proprio dalla prima pagina, per riudire con piacere e gratitudine quegli strani ritmi iniziali:
L’Historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo, perchè togliendoli di mano gl’anni suoi prigionieri, anzi già fatti cadaueri, li richiama in vita, li passa in rassegna, e li schiera di nuovo in battaglia.
E di capitolo in capitolo ripercorrerà una storia immortale.