Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri
William Shakespeare
(1564 – 1616)
Tra il 1592 e il 1593, dopo avere completato il ciclo dei tre drammi dedicati a Enrico VI, nei quali il duca di Gloucester, futuro Riccardo III, acquistava gradualmente primaria importanza, Shakespeare decise di completare il suo studio poetico e interpretativo del cruento conflitto civile divenuto noto con il nome di “guerra delle due rose”, concentrando la propria attenzione su una delle grandi figure maligne del suo repertorio drammatico, Riccardo, che viene seguito nella sua straordinaria avventura da duca di Gloucester a re, con il nome di Riccardo III, appunto, che in modo terribile e, in parte almeno, ingiusto, risuona negli annali della storia.
Pur non facendo parte del numero dei capolavori indiscussi di Shakespeare, come Amleto, Re Lear, Misura per Misura, La Tempesta, la popolarità di questo dramma storico fu immediata e non ha conosciuto tramonto. Pensata e costruita come opera di propaganda politica per la dinastia dei Tudor, oltre che per offrire le più ampie possibilità di esibizione del talento virtuosistico di chi portava sulla scena il protagonista, da Richard Burbage, il faro della compagnia di Shakespeare, a Ian MacKellan nei giorni nostri, Riccardo III è, nell’immaginario popolare, la tragedia del monarca infernale, spietato, calcolatore, inarrestabile. Nessun delitto è di troppo per i suoi fini, nessun complotto gli crea sussulti di coscienza, nessuna nefandezza gli rovina il piacere perverso di averla macchinata.
Riccardo è la prima creazione shakespeariana dell’eroe dalla lugubre luce, ispirato da Machiavelli, che il pubblico inglese amava vedere in azione. La popolarità di tale figura fu iniziata dal primo grande genio del teatro elisabettiano, Christopher Marlowe, purtroppo prematuramente scomparso, quando creò il personaggio di Barabas, il protagonista della tragedia L’ebreo di Malta: il prologo di questa opera è messo in bocca allo spirito stesso di Niccolò Machiavelli, che così declama introducendo l’intreccio: Crede il mondo che Machiavelli è morto, / Ma quello spirto è volato oltre l’Alpi / … / Sappiate dunque ch’io son Machiavelli… Shakespeare, che da Marlowe imparò molte cose, apre il suo nuovo dramma con il duca di Gloucester, solo sul palco, che svela la sua diabolica mente al pubblico. Il monologo di apertura è celeberrimo, dalle prime parole, Ora è l’inverno del nostro scontento, fino agli impietosi versi che commentano la propria menomazione fisica e il proposito di comportarsi da malfattore senza scrupoli, sfruttando la semplicità o l’onestà altrui: Deforme, non finito, prematuro / Gettato in questo mondo a trar sospiri / …/ Ho stabilito d’essere un furfante / E d’odiare gli ozi di questi tempi. Il corteggiamento di Lady Anna, mentre fonde in lacrime sul cadavere del marito che Riccardo le ha ucciso, e proprio mentre sfoga a parole il suo odio per Riccardo, dà luogo a momenti di luciferina, corrusca, grottesca tragicommedia: Fu mai donna in tal stato corteggiata? / Fu mai donna in tal stato conquistata? / L’avrò, ma non a lungo la terrò. Shakespeare mostra, peraltro, anche il lato debole e patetico di Riccardo allorché, alla vigilia della battaglia finale, sogna di essere visitato dalle sue vittime, in lugubre successione; tutte lo maledicono ed il re, risvegliandosi, sente la pallida eco della propria coscienza che prova a morderlo. Conosce l’arte di tornare in possesso della propria persona, ma non può non commuoversi per qualche istante, pensando alla propria solitudine, al deserto degli affetti a cui si è condannato. L’ultima battuta di Riccardo è divenuta senz’altro proverbiale, Cavallo! Il mio regno per un cavallo! Questa disperata invocazione risuona al termine dello scontro di Bosworth Field, ove si concluse storicamente la sua avventura, nel 1485, e iniziò la fortuna della casa dei Tudor.
Di forte suggestione poetica e psicologica è la scena che vede protagonista una delle prime vittime di Riccardo, il fratello Clarence, che racconta il sogno-incubo che ha tanto gravato il suo sonno da fargli sentire tutta l’insostenibile angoscia della morte per acqua. In quel sogno premonitore Clarence vede e sente che il fratello Riccardo subdolamente lo spinge tra i flutti e che questi, in orribile fantasmagoria, lo sommergono e lo inabissano. L’anglista italiano Gabriele Baldini vi sentiva le atmosfere del melodramma piuttosto che della tragedia, una certa “dolcezza e mollezza cantante,” come alcune “arie carezzate per solito dagli interpreti anche oltre il loro valore drammatico, per l’impressione che sorte lo svariare delle immagini.” Anche l’eco del Seneca tragico è avvertibile nelle crudezze di tante scene.
I drammi di Shakespeare offrono, a chi vi dedica tempo e passione, la possibilità di letture e di riletture nel corso delle quali non si approfondisce soltanto la conoscenza del testo, ma si dà libero sfogo alla propria fantasia impegnata ad immaginare personaggi e scene con sempre più plastica evidenza. Quando si ha fortuna, accade di assistere a rappresentazioni che fanno vivere l’opera shakespeariana senza snaturarla, attente alla filologia e alla poesia, e confermano e consolidano l’aerea visione che si era formata nella nostra mente. Così è accaduto recentemente a chi si è recato al Piccolo Teatro Strehler di Milano, dove era in programma Riccardo III, diretto e interpretato da Alessandro Gassman, figlio d’arte. L’impatto visivo è indimenticabile, fin dall’apertura del sipario, e si basa sulla perfetta armonia tra la sensibilità e il virtuosismo degli attori, le luci che formano la semi-oscurità simbolica e realistica della storia, la scenografia che evoca suggestive atmosfere gotiche. I personaggi si muovono sul palco come si mossero in vita, secondo i ritmi di apparizione e di scomparsa stabiliti dal tiranno, che trama e gioca con le loro esistenze, piantando bene in primo piano la propria gigantesca, zoppicante figura.
(Alessandro Gassman come Riccardo III)
I grugniti, i ghigni, le risate di Riccardo significano ora favore ora subitanea, inesorabile disgrazia per chi si aggira a Palazzo, senza altra giustificazione che il capriccio, anzi il calcolo, del sovrano. L’unico personaggio che riesce a reggere la schiacciante presenza di Riccardo è James Tyrrel, che esegue tutte le condanne a morte pronunciate dal suo sire: nell’interpretazione convincente di Manrico Giammarota, è ben più che un servile sicario, diviene piuttosto un’altra potente personificazione del principio del Male in azione, ed è ben degno dei momentanei, angosciosi rimorsi che William Shakespeare gli attribuisce in seguito alla disumana catena dei suoi delitti.