Aleksandr Solženicyn

Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri

Aleksandr Solženicyn

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(1918 – 2008)

Aleksandr Isaevic Solženicyn fu operato per l’asportazione di un tumore maligno all’inguine il 12 febbraio 1952, quando ancora era un detenuto politico. Ebbe una ricaduta con metastasi negli anni 1953 e 1954. La sua vocazione di scrittore rielaborò quelle drammatiche esperienze in un indimenticabile romanzo dal titolo Reparto C. Per questa opera Solženicyn scelse una strategia narrativa che ci pare opposta a quella adottata da Thomas Mann per scrivere La montagna incantata: invece di dilatare lo spazio fisico di un sanatorio svizzero dei primi anni del secolo ventesimo alle dimensioni del mondo (sia per quanto riguarda i personaggi che si muovono nell’intreccio che per il gioco dei temi e delle idee che spirano tra quei personaggi e li fanno pensare parlare agire), lo scrittore che nacque a Kislovodsk, comprime le immense distese geografiche e politiche dell’impero sovietico degli anni cinquanta in una corsia di ospedale, dove sono ospitati a stretto contatto tanti pazienti che hanno in comune soltanto il male che piaga e piega inesorabilmente i loro corpi con carcinomi, sarcomi, linfomi.

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Nello stanzone in cui i letti sono posti l’uno accanto all’altro e l’uno di fronte all’altro, e la riservatezza, cui si aspira con maggior forza quanto più la miseria della malattia fiacca e umilia, è forzosamente abolita, vivono imprecano piangono funzionari del sistema, artigiani semianalfabeti, deportati politici, mestieranti, truffatori, studenti. Il lettore non scorderà la tenera ragazza che, alla vigilia di essere operata, chiede in lacrime al personaggio protagonista che le accarezzi il seno che le verrà asportato il giorno dopo, unica ed ultima occasione di amore della sua vita infelice. Nella corsia si accendono discussioni incomprensioni e odii che ritmano la quotidianità della vita ospedaliera, fatta di palpazioni lastre raggi iniezioni interventi chirurgici morte. Anche i medici responsabili del reparto sono risucchiati in quel centro di sofferenza intorno al quale le loro esistenze ruotano come pianeti intorno ad una stella, catturati da quella potente forza gravitazionale che non permette altra orbita in cui dispiegare le proprie volizioni. La corsia diviene il mondo, quello che accade fuori non solo non ha più importanza, addirittura cessa di esistere, oppure acquista dimensioni improbabili perché solo lo spazio fisico del reparto ha l’evidenza e l’inevitabilità che definiscono la vita. Nella corsia si riproduce la struttura soffocante che fu la caratteristica peculiare della repubblica sovietica, senza, però, la pulizia di facciata che l’apparato si sforzò di perseguire o impose con spietata efficienza. I colori si rivelano pallidi e sporchi, le risorse economiche ed umane insufficienti, obsolete le attrezzature, le persone pavide o tracotanti o attente soltanto al proprio misero particolare, alla propria sopravvivenza.

Andava bene finché gli uomini non si ammalavano di cancro, ma quando si ammalavano non valeva più niente né la specializzazione, né l’astuzia, né l’impiego, né la paga. E dalla loro impotenza, dal loro desiderio di mentire a se stessi, affermando sino all’ultimo che non avevano il cancro, si doveva dedurre che erano tutti dei deboli e che nella vita avevano trascurato qualcosa. Ma cosa?

La rivoluzione bolscevica, tradita come tutte le rivoluzioni della storia (come poteva non succedere così? non basta cambiare le strutture esterne dell’esistenza se l’intimo della natura umana rimane invariato, tutto preso dal proprio “particulare”, come sapeva Francesco Guicciardini. Nascerà soltanto una nuova classe di profittatori, altrettanto spietati, forse più violenti, che prima), si palesa nel romanzo nel suo aspetto più avvilente, abbrutita dalla sofferenza, meschina, infagottata in vestaglie e pigiami troppo larghi e sdruciti e patetici. Sono cambiati i rapporti di forza tra le classi sociali, che, invero, non sono scomparse; sono state ufficialmente abolite le leggi del profitto legate allo sfruttamento del capitale; gli uomini si affidano alle tracotanti, impossibili certezze del materialismo storico e dialettico; la natura intima dei membri della società non è, però, stata intaccata. Il funzionario piccolo borghese è rimasto tale, anche se si vanta di essere un integerrimo rappresentante del nuovo ordine, al quale porta in dono le sue delazioni e le sue squallide velenose tirannie. Per l’animo inquieto, insoddisfatto della stagnazione ideologica, insofferente dell’autoritarismo, che neppure la continua coercizione ha saputo piegare, non è prevista alcuna via scampo, nessuna alternativa. Il nuovo ordine è, purtroppo, l’antico cinismo verniciato di rosso, è disordine bugiardo e oppressivo. Dalle memorie dei ricoverati escono immagini che l’ufficialità voleva obliterare: le cicatrici e le umiliazioni dei prigionieri politici, la carenza di medicinali nell’istituto di oncologia, le code davanti ai poveri negozi per acquistare qualche elusivo genere alimentare che forse sarà tra poco in vendita, di cui si è colta vaga notizia nell’aria spessa e fredda e ostile.

Il senso di stanchezza fisica che impregna le pareti del Reparto Cancro è, in misura concentrata e palpabile, l’atmosfera di tutto l’impero sovietico. La domanda che il lettore si pone è se esista, data la prigione, una possibilità di evasione. La risposta di Solženicyn è ambigua, come tutte le risposte essenziali. Il protagonista del romanzo, Oleg Kostoglotov, lascia l’ospedale. Il suo tumore allo stomaco è regredito, il medico quasi miracolosamente non lo sente più quando lo tasta per i controlli di rito. Ficcate le sue poche cose nello zaino, Kostoglotov si avvia verso il suo soggiorno obbligato, nel remoto paese di Uś-Terek. Steso sul pancone per i bagagli del proprio scompartimento, nel vagone sovraffollato, sente respirare il suo corpo finalmente libero da cure e medicinali. Oleg è uno dei pochi che sono ancora vivi, ma l’effetto dell’ormonoterapia gli impedirà ancora per qualche tempo di potere amare una donna, di costruire una famiglia. Scende la notte. Il treno acquista velocità. L’ultimo pensiero è il ricordo della visita allo zoo, grazie alla quale ha riempito le lunghe ore prima della partenza. Rivede la gabbia del macaco-reso, vuota perché un uomo malvagio, spiegava un cartello, aveva gettato del tabacco negli occhi dell’animale, accecandolo.

Così, tanto per fare qualcosa.

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