Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri
George Gordon, lord Byron
(1788 – 1824)
E’ una pratica diffusa del mondo convenzionale adottare formule di comodo per etichettare personaggi o situazioni che metterebbero in discussione la stabilità dell’ordine costituito. Si usa, ad esempio, lo stilema “gioventù bruciata” per bollare una preoccupante forma di protesta generazionale e disinnescarne la potenziale carica dirompente: le aspirazioni degli adolescenti cessano così di essere motivo di riflessione, e divengono oggetto di paternalistica condiscendenza. Di un pensatore che usa il linguaggio per mettere in luce le menzogne su cui riposa il contratto sociale, si dice che è “oscuro”, allontanando così il suo messaggio dai potenziali ascoltatori che saranno meglio cullati dagli inviti al consumo e al torpore mentale che i mezzi di comunicazione di massa non si stancano di veicolare.
Lord Byron, che, come si espresse con vivace immagine, si svegliò una mattina e si ritrovò celebre, si ritrovò allo stesso tempo oggetto dello stereotipo, che lo perseguitò per tutta la vita, di gentiluomo misterioso e satanico, anima corrotta e corruttrice, bersaglio di pettegolezzo maligno e di morbosa curiosità travestita da ipocrita condanna. La sua reputazione sociale fu espressa nel modo più icastico dalla più intemperante delle sue amanti, Lady Caroline Lamb, che disse “he’s mad, bad and dangerous to know”, “è pazzo, malvagio e pericoloso da conoscere”.
Byron, beninteso, fece di tutto per alimentare le chiacchiere sul suo conto, ma quello che occorre ricordare è che, di fronte all’apparizione di talenti straordinari, l’atteggiamento corretto è di cogliere la novità e la grandezza del loro messaggio, non la meschinità delle loro debolezze, di cui furono dotati al pari di ogni altra umana creatura, o forse più. E’ purtroppo il desiderio invidioso di abbassare il genio al livello della mediocrità imperante che spinge ad occuparsi della vita privata di un artista piuttosto che della sua opera. E’ attività meno faticosa e, come si diceva sopra, non produrrà momenti di consapevolezza e di autentico pensiero.
(Byron in costume albanese)
Lo stereotipo di un Byron satanico è, peraltro, poco significativo in relazione alla totalità della sua produzione artistica: non è fuori di luogo per alcune creazioni del poeta, come il Giovane Aroldo, che gli diede la subitanea fama, dipinto come “tenebroso impudico cavaliere, dedito a empi piaceri”; si adatta alla affascinante figura di Manfred, protagonista del dramma omonimo, che vive solitario tra montagne inaccessibili, tormentato da faustiana sete di conoscenza e da un passato innominabile. Non è più valido per il capolavoro di Byron Don Giovanni, l’ultima sua potente invenzione il cui eroe, invece di essere una nuova incarnazione dell’infernale libertino, trasgressore di ogni legge umana e divina, è un effeminato rampollo continuamente sedotto da chiunque si invaghisca di lui. La vena del lunghissimo poema è, di fatto, eroicomica, ben lontana dallo stereotipo dell’”eroe byronico”: il poeta amava infatti il genere satirico e parodistico, e tradusse in inglese il Morgante Maggiore di Luigi Pulci, uno dei capolavori dell’epica comica italiana. Il “satanico” Byron, inoltre, si interessò seriamente e fattivamente del movimento carbonaro in Italia, rimanendo peraltro deluso dalla mancanza di organizzazione delle varie cellule; e finì la sua vita prodigando le ultime energie, fisiche e finanziarie, al sogno dell’indipendenza greca, oppressa da secoli di dominio ottomano.
Aldilà di poesie che si possono ritrovare in qualunque antologia, come la celeberrima She Walks in Beauty (“Ella incede in bellezza”), richiamo l’attenzione del lettore su una produzione ignota o ignorata, ma che aiuta a comprendere la ricchezza e la varietà della personalità del poeta, intendo le lettere che scrisse dall’Italia durante il suo volontario esilio, alcune redatte in italiano. Rivelano un osservatore attento ai costumi e al degrado del nostro infelice paese, insieme con lampi di divertite annotazioni, di incidenti salaci, di riflessioni più malinconiche. Così si espresse a proposito della ossessione generale di trovarlo, appunto, “byronico”, un giorno che giunse in visita, per contemplare la più affascinante figura del Romanticismo europeo, un giovane di Boston:
Non riesco mai a far capire alla gente che la poesia è l’espressione di uno stato di eccitamento passionale, e che non esiste un’intera vita di passione così come non si può avere un continuo terremoto o una febbre eterna. A parte tutto, chi riuscirebbe mai a radersi in condizioni simili? (5 luglio 1821)
Gli ultimi due estratti che propongo riguardano, il primo, il funerale di Shelley e, il secondo, alcune personali riflessioni sull’amicizia, inviate a Mary, vedova di Shelley. Vi risuonano le note del pessimismo filosofico che resero Byron carissimo al grande Arthur Schopenhauer:
Abbiamo provveduto a bruciare i corpi di Shelley e di Williams sulla spiaggia per poter poi procedere al trasporto e alla regolare inumazione. Tu non puoi immaginare l’effetto straordinario di un rogo funebre su una spiaggia deserta con le montagne sullo sfondo e il mare di fronte, e il singolare aspetto che il sale e l’incenso donano alla fiamma. Di Shelley tutto si è bruciato tranne il cuore, cui la fiamma non volle attecchire; lo si conserva ora sotto spirito. (a Thomas Moore, 27 agosto 1822)
Quanto all’amicizia è una propensione per la quale la mia natura è molto limitata. … non l’ho provata neppure nei confronti di Shelley, per quanto lo ammirassi e lo stimassi infinitamente; dunque neanche la vanità può indurmi a questo sentimento, giacché fra tutti gli uomini che abbia mai conosciuti, Shelley era quello che aveva la più alta opinione del mio talento e forse anche della mia personalità.
…
Certo, nella vita, ho avuto migliaia di quelli che comunemente si chiamano amici e altri ne potrò avere, ma sono come i partners nel valzer di questo mondo, destinati ad essere dimenticati quando il ballo è finito anche se sono stati, per un momento, una compagnia molto piacevole. L’abitudine, gli affari, lo stare insieme nella gioia e nel dolore, sono legami della stessa natura, e un altro vincolo del genere è una comune fede politica. (16 novembre 1822)
(Autografo dell’inizio del canto 7 di Don Juan)