Ernest Hemingway

Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri

Ernest Hemingway

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(1899 – 1961)

Ernest Hemingway è uno scrittore forse più noto per la serie di stereotipi che sono stati attaccati alla sua figura (pugile, gran bevitore, amante delle corride e della caccia grossa e delle donne) che per la sua produzione. Supponiamo però di non avere mai sentito il suo nome, e di sfogliare alcuni suoi volumi presi a caso da uno scaffale della biblioteca, in cui siamo capitati per ritemprare un poco la mente, per capire quali temi interessarono questo artista.

Viaggiando rapidamente tra le pagine di Addio alle armi, ci sentiamo immersi nelle vicende della prima guerra mondiale, tra i sordi colpi di mortaio sul fronte del Piave e una storia d’amore tragica come quella di Romeo e Giulietta. Lotte, morti, sommovimenti di masse: eventi drammatici, che allo stesso tempo rivelano la loro natura temporale, cioè effimera, quasi lievi increspature sulla superficie di uno stagno. Per chi suona la campana, dal titolo un po’ esoterico è altra storia di guerra ambientata nella Spagna del sanguinoso, crudele conflitto civile. In entrambi i romanzi, ci colpisce anche a livello tipografico, il dialogato intenso: battute talvolta di pochissime parole, che però creano intorno a sé una forza che non si dimentica. Elio Vittorini ne restò talmente impressionato che cercò di riprodurne le cadenze in Uomini e no, con ambiguo risultato.

Poi ci capita tra le mani un volume strano, Morte nel pomeriggio, dedicato alla Spagna dei toreri. Subito lo colleghiamo a Fiesta, che abbiamo visto poco fa sullo stesso scaffale, un romanzo d’amore per la Spagna della festa di San Firmino di Pamplona, quando gli uomini corrono davanti ai tori per le strade, e un documento tra i più vivaci della generazione di americani che furono giovani negli anni venti/trenta. Ricordiamo che sono bastate poche battute di quelle pagine per conquistarci: ci siamo ripromessi di leggere quell’opera non appena possibile, così intessuta di gioia di vivere e, insieme, del senso tragico della stessa vita.

Abbiamo ora tra le mani un volume intitolato I quarantanove racconti, variabili in lunghezza da poche pagine a qualche decina. Ci scorrono sotto agli occhi alcuni titoli: Grande fiume dai due cuori, diviso in due parti che raccontano, ci pare di aver compreso, le azioni ordinarie di un giovane uomo solo nei boschi, concentrato sulla pesca, sui suoi pensieri, sulla natura intorno a lui: alcune riflessioni ci hanno fatto balzare il cuore in petto; Le nevi del Kilimangiaro, nel cui cappello introduttivo, in corsivo, ci ha arrestato la notizia che vicino alla cima occidentale del monte è stata rinvenuta la carcassa rinsecchita e congelata di un leopardo. Nessuno è mai riuscito a spiegare cosa cercasse la belva a quell’altitudine. Restiamo in sospeso per qualche secondo con il libro tra le mani, lo sguardo assorto, è come se certe domande sempre rinviate o eluse ci assalissero d’improvviso, sondando profondità in cui lo sguardo si smarrisce: però, questo Hemingway…

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Riprendiamo a sfogliare le pagine del volume: siamo attirati da un altro titolo, Un posto pulito, illuminato bene: poche pagine di essenziale liricità che leggiamo subito da cima a fondo. E finalmente comprendiamo, noi che non sapevamo nulla di Ernest Hemingway prima di intraprendere questa ricerca tra corridoi e scaffali dal vago sapore di polvere, che questo autore è un classico e che già amiamo la sua opera. Il racconto narra di un vecchio, ormai sordo, seduto senza alcuna compagnia al tavolo di un bar nella notte avanzata di un luogo senza nome, che però associamo subito all’isola di Cuba. Il vecchio chiede ripetutamente e con dignità del brandy, tenendo svegli due camerieri, il più giovane dei quali vuole ritornare a casa, al letto in cui lo aspetta la moglie. Apprendiamo dai due camerieri che l’uomo ha tentato il suicidio recentemente pur essendo ricco, che ora è accudito da una nipote; apprendiamo che ormai è tempo di chiudere, è tardi, molto tardi.

Il vecchio se ne va, camminando lungo la strada con passo incerto ma con grande dignità, i camerieri si salutano, il più anziano si ferma a consumare un bicchiere di liquore in un locale ancora aperto. La sua mente è turbata, e rimeditando la figura del vecchio formula una parafrasi inquietante del Padre Nostro in cui al posto del padre del pane dei cieli del male sostituisce ogni volta la parola spagnolanada, che significa “nulla”:

Nada nostro che sei nel nada, nada sia il tuo nome nada il regno tuo nada sia la tua volontà in nada come in nada. Dacci in questo nada il nostro nada quotidiano e nada a noi il nostro nada come noi nada i nostri nada e che non si nada nel nada ma liberaci dal nada; pues nada.

Il miracolo è che, invece di sentirci perduti e sconfitti nel freddo deserto del nichilismo, sentiamo che dal racconto pulsa una forza che non abbiamo mai avvertito nel disordine della vita quotidiana che ci circonda. E’ la forza che sa contemplare il vuoto in cui l’uomo respira e crede di vivere, e quel vuoto trasforma in opera d’arte smagliante e viva. Hemingway intende e comunica tutto questo grazie al proprio linguaggio narrativo divenuto ormai puro. Come un alchimista, lo scrittore americano si è disfatto degli elementi grevi del mezzo espressivo e, concentrato sull’opera come un alchimista sull’alambicco, ne ha estratto l’oro, la pietra filosofale.

Non è soltanto una lezione di stile. 

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